Egle
Attraverso la calotta in plexiglas che, nell'era del cellulare, sembra
afflosciarsi di giorno in giorno, la cabina a muro del telefono è
uno sbaglio dimenticato e appeso. Appeso al muro di pietra del centro
storico, dimenticato da chi non la vede più. Tra qualche anno
penso che le toglieranno tutte, e mi domando come farà Egle.
Egle è una vecchia che ricorda Maga Magò della mia infanzia,
non una vecchia signora, come si dovrebbe dire. I suoi capelli sono
stoppa ricurva, i suoi vestiti cumuli di stracci, ai piedi porta pantofole
luride, nate per i tappeti e non per vicoli lordi di urina. Eppure Egle
non è una barbona, non è povera, ha una casa che guarda
il fiume.
Il mio lavoro mi porta spesso dalle parti di quella cabina acciaio e
arancio, con tutti quei numeri appiccicati sopra. E lei è lì,
e telefona. Tiene la cornetta con la testa abbassata, come a volerla
cullare tra testa e spalla. E mentre parla guarda chi passa, e se la
guardi cambia tono, si anima, anche la voce modula da un sussurro indistinto
a una parvenza di senso compiuto. Vuole che tu lo noti che sta parlando.
La settimana scorsa ero in appostamento con una collega. Per controllare
lo spaccio nel quartiere dovevamo osservare la zona, e convenimmo che
il sistema migliore sarebbe stato prendere un aperitivo in un bar con
un'ampia vetrata e osservare da dentro. La collega aveva rotto col fidanzato,
che non si rassegnava, e, con le spalle al vetro, metteva a dura prova
la batteria del cellulare. Io avevo la visuale sgombra, e molto tempo,
che di solito non ho. Egle arrivò come sempre alla cabina.
Armeggiò in qualche modo e poi cominciò a parlare. Cambiando
postura se passava qualcuno, ma qualcuno ben vestito, non i ragazzi
che vendono il fumo. Coppie con cappotto e guanti, e lei, magari, con
il cappello foderato di pelliccia. O distinti professori con l'ombrello
firmato.
Egle parlava. E non so se fu la noia della conversazione senza sbocchi
che la mia collega stava imbastendo, o il calore molliccio e rilassante
del locale, o quella boccata di martini che, come alibi, dovevo tenere
sul tavolino, ma per una manciata di minuti seppi che cosa passava in
quel filo. Egle parlava con lui. Chi o come fosse non lo saprei dire,
ma era lui all'altro capo del filo. Lui che non era rimasto abbastanza
per poter essere guardato solo come un uomo e non come tutto quello
che serve. Lui che aveva sfiorato le mani di lei, e non importa se un
giorno o quarant'anni prima, ma le mani di lei avevano perduto quella
strada. Quelle mani grandi, quadrate e affidabili, che Egle ricordava
bene e ridisegnava ogni giorno nella sua mente e con cui ogni giorno
schiacciava il suo cuore.
E quel dolore, quell'assenza o quella morte, che poca differenza passa,
l'avevano fatta vivere, le avevano dato forza, per ripetere ogni giorno
quel rito che a suo tempo non aveva compiuto, per fare quella telefonata
che allora non aveva fatto, per orgoglio, per distrazione o per tutte
quelle cose piccole e meschine che riempiono le nostre giornate di niente
e relegano i tesori nelle scatole in soffitta.
Mentre uscivo dal bar mi è parso – ma forse sbaglio –
che il filo della cornetta fosse tutto sfilacciato, come i capelli di
una ragazzina innamorata annodati dalle dita nel movimento ad elica.
Ma tanto ha poca importanza: tra qualche anno quelle cabine le toglieranno
tutte, e mi domando come farà Egle.
Ramona
Lei esiste davvero, anche se ignoro il suo nome.