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Due storie di impegno senza frontiere


Il paziente africano


Un medico che sceglie di lavorare in Africa può avere mille motivazioni, tranne quelle “normali” (soldi e carriera). L’impatto sarà comunque difficile, e le domande non finiranno mai. Fra lotta all’AIDS e cura delle malattie mentali (passando per il sostegno ai pigmei), le risposte di una single (Stella) e di una coppia (Paolo e Giovanna)

Per Stella è stato uno strano ritorno al passato. Per Paolo e Giovanna lo sbocco naturale di una vita dedicata all’assistenza. Il denominatore comune è l’estrema semplicità e naturalezza con cui parlano di una scelta così difficile, soprattutto per il luogo e il tempo della loro esperienza, il Congo distrutto dalla “prima guerra mondiale africana” (vedi reportage nel numero precedente).
Stella Egidi è cresciuta a Kinshasa. La sua famiglia si trasferì da Viterbo in Congo nel 1979, quando lei non aveva ancora tre anni. Il padre infatti lavorava per la “Astaldi”, grande ditta di costruzioni, all’epoca molto presente in terra congolese. Un’infanzia africana, l’Italia vista solo da lontano, un posto dove passare le vacanze, dai nonni. Ma “casa” era qui, nel paese che si chiamava Zaire, un luogo dove si viveva in un’atmosfera di stampo coloniale, anche se parliamo degli anni Ottanta. “Avevo pochi contatti con i locali” ricorda Stella: giusto i figli del personale domestico. La scuola italiana, se non per qualche raro figlio di coppie miste, era frequentata solo dai bianchi. “I miei ricordi sono filtrati dalla positività dell’infanzia. Però tutti ti confermeranno che Kinshasa era più bella, oltre che molto più piccola, e che il sistema-paese in qualche modo funzionava meglio di adesso”. Ma già allora Stella percepiva che c’era qualcosa di sbagliato, nell’atteggiamento reverenziale, e in certi casi servile, dei neri nei confronti dei bianchi. Un sottile imbarazzo, probabilmente quello di chi sente le uguaglianze più delle differenze, di chi trova strano sentirsi chiamare “mademoiselle” dall’autista che potrebbe essere tuo padre.
L’imbarazzo “coloniale”diventa però disagio puro al momento del rientro in Italia, finite le scuole elementari. Il confronto con i coetanei italiani, nella prima adolescenza, è traumatico. Stella non capisce per esempio come si possa essere così ossessionati dalle mode. E la scoperta del freddo, in senso climatico, non aiuta, anche perché si accompagna forse ad un freddo interiore. Però bisogna difendersi, a quell’età nessuno si vuole sentire diverso, e l’unica strada possibile è quella della rimozione: l’Africa diventa un posto chiuso a chiave nel cuore.
Pronto a tornare a galla, comunque, al momento della scelta universitaria: Stella si iscrive a medicina in una prospettiva umanitaria. I passi successivi, e cioè il corso di medicina tropicale, la specializzazione in malattie infettive, la domanda per le selezione a “Medecins sans frontières” (MSF), vanno tutte in quella direzione. Probabilmente non si aspettava di partire così in fretta, e certo non poteva immaginarsi di essere destinata proprio in Congo. Negli anni precedenti non era mai tornata in Africa. Avrebbe dovuto fare i conti con l’immaginario di una bambina, affrontare l’impatto con la dura realtà.
Nel febbraio 2006 Stella torna a Kinshasa dopo vent’anni di assenza. Inutile dire che niente è come prima, che tutto è cambiato, ed è cambiato in peggio. E’ difficile anche l’impatto con il lavoro: “Ero spiazzata, ti ritrovi in mezzo a tanta gente senza avere un ruolo preciso, alle prese con un sacco di lavoro di tipo amministrativo, quando io ero venuta per curare la gente. I primi tre mesi sono stati molto duri”. Andare dove ti porta il cuore fa sottovalutare tante cose, l’esperienza mette a dura prova i sogni, soprattutto all’inizio. Ma poi le cose cambiano. Nel maggio 2006 Stella comincia a lavorare al nuovo centro di MSF a Masina, uno dei quartieri più poveri e popolati, sulla strada che porta all’aeroporto di Kinshasa. E’ una battaglia quotidiana contro tutto: la povertà, l’ignoranza, l’assenza dello Stato, la scarsa disponibilità di medicinali, la mancanza di personale locale adeguato. Bisogna intanto partire dal presupposto che l’AIDS è l’ultima delle preoccupazioni in un paese che deve ricominciare da zero, anche perché in Congo almeno questo flagello ha dimensioni meno vaste rispetto ad altri paesi africani, a cominciare dal Sudafrica: i sieropositivi sono ufficialmente il 3,8 per cento della popolazione, e anche se la stima è sicuramente molto inferiore al dato reale, siamo comunque lontani dalle percentuali spaventose di altre nazioni (lo Swaziland arriva al 40 per cento).
Probabilmente le grandi distanze di questo paese enorme hanno limitato la diffusione, e non a caso l’AIDS è molto più diffuso nell’est che ha visto massicci spostamenti di popolazioni in fuga dai conflitti dell’area dei Grandi Laghi. Sembra comunque assolutamente fondata l’ipotesi che il terribile virus HIV sia passato dalle scimmie all’uomo proprio da queste parti, visto che il primo caso accertato di sangue infetto è quello di un uomo di Kinshasa, nel 1959. Il veicolo potrebbe essere stato la carne di scimmia non cotta bene, mangiata dai lavoratori della ferrovia Brazzaville-Pointe Noire, che rimanevano isolati nella foresta per mesi.
Una malattia come l’AIDS impone di lavorare moltissimo sulla prevenzione. Il che significa innanzi tutto far uscire la gente dall’ignoranza e dalla vergogna. “Incontro ancora ragazze che non sanno cos’è un preservativo e non hanno la minima idea di che cosa sia realmente e come si trasmetta l’AIDS”, spiega Stella. Molta gente pensa che si tratti di una maledizione, opera di qualche “sorcier” (stregone). Per questo spesso si presentano al centro persone in uno stadio talmente avanzato della malattia da risultare incurabili. “Io i miracoli non li so fare. Non riesco ad accettare che si debba arrivare a situazioni disperate, prima di fare qualcosa”. Ogni paziente che muore è un’amara sconfitta, mentre ogni malato che torna a vivere è un messaggio con ricadute positive enormi per la gente. “Due nostri pazienti, Jean e Ester, hanno deciso di sposarsi, e adesso fanno parte di un’organizzazione di persone sieropositive che fa sensibilizzazione con la gente e cerca di portare il problema dell’AIDS all’attenzione del governo”. Persone recuperate alla vita, che innescano meccanismi virtuosi dando un senso agli sforzi compiuti. Se non ci fossero questi segnali, sarebbe facile lasciarsi andare al pessimismo totale.
“Per avere un’idea della situazione, basta dire che solo il cinque per cento di quelli che avrebbero bisogno riesce ad accedere ai trattamenti antiretrovirali”.
Finché si parla di promiscuità sessuale, della difficoltà estrema a vivere la famiglia monogamica, degli atteggiamenti prevaricatori sulle donne o dell’arretratezza culturale rispetto alla malattia, il problema riguarda i congolesi.
Ma quando si tocca il tasto dei prezzi di farmaci, il discorso si fa politico e riguarda tutti quanti: l’ostinata protezione dei brevetti da parte delle case farmaceutiche, le logiche di mercato ferocemente applicate alla sanità, il silenzio dei media sulle grandi malattie africane, sono fattori altrettanto pesanti nel destino della gente, e sembrano ancora più difficili da combattere e da cambiare. La battaglia vinta da Nelson Mandela per il popolo sudafricano contro la “Big Pharma”, per poter utilizzare medicinali “copiati” con successo in India, Brasile e nello stesso Sudafrica, non ha ancora invertito la tendenza. Per paesi come il Congo non è cambiato molto. MSF lo sa bene, e da anni non limita più la sua azione alla cura dei malati, ma cerca il confronto con i governi e le grandi multinazionali della chimica per risolvere il problema, cioè mettere fine alla vergogna.
Stella sa benissimo che il suo impegno, come quello di MSF, copre una parte minima dei bisogni reali. Però difende con convinzione il messaggio che si porta insieme alle cure: “Tutti devono avere la possibilità di sapere che si può guarire, essere più sani, vivere meglio. E non è una possibilità astratta, perché nessuna realtà è immutabile”. Il contagio della consapevolezza in effetti si può innescare con la stessa rapidità del virus. E come per la malattia, può passare molto tempo prima che se ne possano vedere i risultati “conclamati”. Anche MSF ha sempre di più allungato i tempi dei suoi progetti (e allargato la sfera di intervento), il Congo ne è una dimostrazione (il progetto iniziale doveva finire nel 2003, invece andrà avanti per diversi anni ancora). Stella comunque ha deciso che un anno di esperienza qui per lei è sufficiente, pur considerando questo periodo il minimo indispensabile per fare e capire qualcosa. In futuro, potrebbe ripartire con MSF come fermarsi in Italia. E’ probabile che dentro di sé avverta in qualche modo di aver superato la prova del ritorno, “pareggiato” i conti con il passato. La sua storia è in linea con l’approccio delle nuove generazioni, più “laico” e flessibile.
Diversa invece è la prospettiva di Paolo e Giovanna Volta, anche perché è diversa la loro storia. Sono due cinquantenni che hanno vissuto in pieno gli anni Settanta, “anni di scelte radicali, di cose serie”, come ricorda Paolo, classe ’53, originario di Parma. Per due giovani cattolici che si conoscevano dai tempi dei boy scout, le scelte “alternative” erano sentite come doverose, in un periodo di cambiamento enorme nella società italiana. Uscire di casa giovani, lavorare in fabbrica mentre si continua a studiare, vivere in comunità, sposarsi a 23 anni, avere subito figli, significava coniugare la gioventù con la responsabilità, fare presto scelte importanti e portarle avanti con coerenza: tutte cose che appaiono un po’ “marziane”, a chi ha vissuto gli anni del riflusso e del disimpegno, ma sicuramente costituivano un’eccezione anche a quei tempi. Fare cose eccezionali in modo assolutamente normale sembra proprio l’imprinting di un medico la cui storia ricorda quella di Nicola (Luigi Lo Cascio) della “Meglio gioventù”. Un giovane psichiatra nel periodo della “riforma Basaglia”, quella che sosteneva che “i malati mentali hanno gli stessi diritti delle persone normali”, per dirla come nel film, ovvero la riforma che “ha chiuso i manicomi”, per dirla come è passata nella memoria popolare.
Ad avvicinare i Volta all’Africa è un missionario saveriano portatore di handicap, padre Silvio Turazzi, che si occupava del sostegno ai disabili per conto della diocesi di Goma, città congolese al confine con il Ruanda.
I portatori di handicap fisici sono numerosissimi, in Africa. La poliomielite in particolare, prima che si diffondesse il vaccino, ha deformato gli arti di milioni di persone, costringendole alla carrozzine, alle stampelle, alle forme più incredibili di deambulazione. Ma forse proprio per la diffusione dell’handicap, i disabili africani sono fra i meglio integrati del pianeta nella loro realtà, senza bisogno di leggi particolari per l’inserimento o tutele speciali da parte dello Stato. Per i malati di mente è diverso. La schizofrenia (“molto meno diffusa che in Europa”, assicura il dottor Volta), la demenza precoce, ma anche la semplice epilessia, sono viste quasi sempre come manifestazioni del Male, disgrazia inviata da qualche nemico di famiglia, con l’apporto di chi è in contatto con gli spiriti maligni. Il malato di mente africano più che vergogna suscita paura, anche perché si teme che la sua malattia sia trasmissibile. Il destino di chi ha problemi psichici è molto spesso segnato: l’abbandono o l’isolamento totale.
Quando il vescovo di Goma conosce Paolo Volta, trova l’aggancio per allargare l’attività di sostegno ai disabili anche ai malati di mente. “Io sognavo di fare il medico nella foresta – spiega con autoironia lo psichiatra italiano – invece c’era bisogno di me in città”. Il progetto viene realizzato con l’aiuto di “Medicus Mundi”, che inizia i lavori per un centro di salute mentale distinto dalla struttura che si occupa di disabili. Nel 1991 tutta la famiglia Volta si trasferisce in Congo: Paolo, Giovanna e i due figli di 12 e 13 anni. Ma dal vicino Ruanda cominciano ad arrivare gli attacchi del Fronte popolare rivoluzionario di Paul Kagame, che si oppone al governo ruandese a dominio hutu, sconfinando in Congo. A Goma arrivano anche le truppe della Legione straniera francese, la tensione nella zona diventa presto insostenibile, anche perché non ci sono i buoni e i cattivi, non si sa mai da quale parte può provenire la minaccia.
I Volta decidono di rientrare in Italia. Per i loro figli l’esperienza africana basta e avanza: non si può vivere nella paura. A Parma devono ricominciare praticamente da zero, visto che avevano programmato di restare in Congo per sei anni. A Goma comunque il progetto va avanti, il centro di salute mentale viene ultimato nel 1994. Ad aprile di quell’anno inizia in Ruanda il genocidio dei tutsi (e degli hutu che si oppongono alla strage). Ma già a luglio le parti si invertono: ora i tutsi di Kagame comandano, e gli hutu fuggono in massa dalle ritorsioni. Il centro di salute mentale è occupato dai profughi, che restano per un paio di mesi e poi se ne vanno. “Abbiamo inaugurato il centro il 15 gennaio 1995”, ricorda madame Leontine, quasi mezzo secolo di servizio come assistente sociale, un’attività iniziata prima dell’indipendenza, quando il Congo era ancora una colonia belga.
Il dottor Volta non perde mai i contatti con l’Africa. Lui e la moglie continuano a lavorare per tutti gli anni Novanta per la ASL di Parma, uno come psichiatra l’altra come assistente ortofonista per i bambini. Ma quando si creano le condizioni per ripartire, con i figli già autonomi e il primo nipotino in arrivo, non ci pensano due volte, e si stabiliscono a Goma proprio mentre la feroce guerra del Congo si avvia alla conclusione (2003). Nel loro caso si può dire che la vita comincia a cinquant’anni, perché andare ad abitare in una casa senza luce e senza acqua corrente, come tutte quelle del loro quartiere alla periferia di Goma, non sembra una scelta da distinti signori di mezza età. “Non abbiamo nessun contratto, non siamo inquadrati in un progetto definito. Per noi l’idea di base è che si può fare famiglia in qualsiasi parte del mondo”. A vederli, si direbbe che è una cosa semplicissima; evidentemente la fede che li anima è molto grande, anche se non viene mai sbandierata.
Il centro di salute mentale è una struttura aperta, impostata secondo i canoni della psichiatria moderna: i malati entrano ed escono secondo un percorso a tappe che cerca di guarirli o migliorarne al massimo le condizioni per reinserirli nel loro contesto familiare e sociale. Le famiglie di origine sono sempre coinvolte, e l’assistenza avviene anche a domicilio, attraverso il lavoro degli assistenti sociali che cercano di affrontare i problemi che riguardano l’ambiente da cui i malati provengono (compreso il problema più banale e diffuso, la povertà, che pesa per esempio sull’acquisto dei farmaci prescritti per la terapia).
“Il disagio mentale è molto cambiato, nel corso degli anni - dice madame Leontine – “Oggi abbiamo a che fare molto spesso con disturbi dovuti all’uso della droga e a traumi vissuti negli anni di guerra”. Oltre ai malati mentali veri e propri, come gli epilettici, si possono incontrare persone che rappresentano, come tanti pezzi frantumati, lo specchio del dramma vissuto da un’intera nazione. C’è il giovanissimo ex soldato che cerca di uscire dall’incubo di ricordi, alcol e droga, e risponde timido alle domande del dottor Polepole; la bambina terrorizzata, dopo che ha visto picchiare suo padre da gente armata, che per quattro volte ha fatto visita alla sua famiglia, per farsi dare anche il poco che avevano. Ora non riesce più a dormire, ed è come paralizzata dalla paura. “La traumatizzazione – spiega il dottor Polepole - fa sì che basta una situazione simile perché la bambina viva di nuovo l’episodio che ha scatenato la patologia”. Ci sono donne depresse dopo che sono state violentate, sono rimaste incinte e hanno deciso di tenersi il figlio, e per questo sono state abbandonate o maltrattate dal marito o dal compagno. Al centro di salute mentale si punta molto sull’ergoterapia: fare esprimere il paziente attraverso i disegni, la danza, il teatro, i racconti. Si cerca anche di far recuperare l’autostima attraverso piccolo lavori, come occuparsi dei conigli o del giardino, che possono essere remunerati: portare dei piccoli guadagni in famiglia è uno dei modi per far recuperare la considerazione e il sostegno dei familiari, che possono venire al centro e partecipare al percorso terapeutico. La rete di relazioni è fondamentale ovunque, e in Africa ha un valore esiziale, in mancanza di tutto il resto: è una rete che ha fatto mira coli, in questo continente. Il problema è che quest’area ha vissuto una drammatica destabilizzazione per almeno dieci anni Nessuno sa esattamente quanti siano gli sfollati, e i movimenti di popolazione continuano anche in questi giorni.
Giovanna Volta è alle prese proprio con questo tipo di problema: il posto dove opera, Mugunga, è praticamente un assemblaggio di gente di tutte le etnie, scappata dalle guerre o dall’eruzione del vulcano che sovrasta Goma, che nel gennaio 2002 distrusse centinaia di case . A pochi chilometri da Mugunga, nella foresta di Masisi, c’è ancora uno dei signori della guerra in piena attività, il generale Nkunda, che ha sulla sua testa un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità. Fra le sue numerose vittime, ci sono anche 35 famiglie di pigmei, fuggiti nel 2002 dalla foresta dove vivevano. “La loro situazione era disastrosa, anche perché erano isolati dal resto della popolazione”, racconta Giovanna. Si trattava intanto di valorizzare le loro capacità.
Giovanna scopre che i pigmei sono dei veri artisti nel lavorare l’argilla: non solo vasellame di tutte le fogge, ma anche i tradizionali forni africani a carbone che qui chiamano “tabulà”. Lei ha preparato un catalogo e si è occupata della commercializzazione, con buoni risultati. Poi con l’aiuto di una coppia abruzzese, Goffredo e Tiziana, hanno realizzato una serie di casette in legno, una scuola materna, una sala per i corsi di alfabetizzazione, un dispensario, coinvolgendo un’insegnante e un’infermiera di Goma. Lentamente, i rapporti fra i pigmei e gli altri abitanti migliorano. Ma la stabilità in questa zona è ancora un’ipotesi. Il demone della guerra è sempre in agguato, e quello che si è costruito in mesi e mesi di impegno può essere distrutto in poche ore. Giovanna sembra aver interiorizzato una po’della grande pazienza africana, e non fa trasparire mai né ansie né preoccupazioni. Forse fa anche lei parte ormai di quell’Africa-Penelope che, contro tutto e contro tutti, tesse incessantemente la sua tela.

Cesare Sangalli