Di cosa parliamo quando parliamo di Africa
Lezioni di calcio
I coccodrilli di Yamoussoukro
Colonnello, non voglio il pane…”
In nome di Allah clemente e misericordioso
L'albero delle donne e la donna degli alberi
Tutti a casa
Democrazia nel deserto
Figli di papà
E' mattina in Etiopia
Hotel Rwanda
Quando il Benin batte l'Italia
Il bandito e il campione
La seconda generazione
Un rebus chiamato Nigeria
Doctor Schweitzer & Mister Hyde

The African Job
Le mani sul Congo
I bravi maestri e i cattivi alunni
Le due Somalie
La luna calante e il giovane re
Democrazia turistica alla tunisina
Alle radici dell'odio
Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo
Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

Pubblicato su "Galatea", maggio 2004

Di cosa parliamo quando parliamo di Africa


Una manifestazione non fa primavera. E' una sintesi forse riduttiva per l'evento di aprile a Roma, una tre giorni per l'Africa fortemente voluta dal sindaco Walter Veltroni, che ha comunque aperto una breccia nel silenzio mediatico che circonda il Continente Nero. Per qualche giorno l'Africa ha fatto "tendenza", ha avuto copertine, titoli, trasmissioni destinate al grande pubblico. Di questi tempi non è poco. Ma ancora una volta l'approccio "generalista" finisce per indebolire le richieste politiche, che in questo caso riguardavano l'embargo alla vendita delle armi, la diffusione dei medicinali per curare l'Aids, la remissione dei debiti degli stati africani, l'aumento delle spese per la cooperazione. Le proposte sono spesso avulse dai contesti reali, tendono a diventare tanti spot che vengono ripetuti nel corso degli anni proprio perché non sono davvero incisivi. La retorica, i luoghi comuni, le frasi fatte prendono il posto dell'informazione. In mezzo a tanto buonismo ufficiale, una voce meritava maggiore considerazione : quella di padre Giulio Albanese, direttore dell'agenzia missionaria Misna che spesso è l'unica fonte di informazione su fatti africani. Albanese ha invitato i direttori di testate giornalistiche di qualsiasi tipo a dare spazio a notizie dall'Africa, in prima pagina, almeno una volta alla settimana. E'una richiesta sacrosanta, dal punto di vista giornalistico, ma difficilmente verrà raccolta. Esiste come una "volontà di ignoranza" su questa parte del mondo che è lo specchio fedele del complesso di superiorità occidentale. Il sintomo più emblematico di questa mentalità sta nel fatto che nessuno sembra vergognarsi di non sapere assolutamente nulla dell'Africa. Non una capitale, non una posizione geografica, non un leader politico, non un fatto di storia contemporanea..
L'Africa del 2000 non ha certo bisogno della retorica sempre più stantia che da circa mezzo secolo, dalla fine del colonialismo, la avvolge in un quadro ottuso o ipocrita, o entrambe le cose. L'approccio culturale e politico è così modesto che non si riesce neanche a rinnovare l'armamentario degli slogan. L'ultimo, quello di tendenza, è "l'Africa agli africani". Che infatti compaiono sempre (quando compaiono) nel ruolo di comparse. Meglio se sono cantanti, calciatori o personaggi televisivi, come l'immancabile Idriss di "quelli che il calcio". Sembra che nel Continente nero non ci siano docenti universitari, giornalisti, scrittori, economisti, sindacalisti, vescovi e sacerdoti. Sono sempre gli altri a parlare, gli africani restano i "convitati di pietra", obbligati ad ascoltare una retorica sempre uguale a se stessa, che si può sintetizzare in tre grandi categorie: la retorica del pietismo; quella dello sviluppo; quella del terzomondismo.
La retorica del pietismo è quella indubbiamente più diffusa e più abusata. E' la più pericolosa, proprio perché si presta perfettamente al gioco mediatico, e consente di continuare a non porsi mai un interrogativo vero, perpetua l'assoluta ignoranza, non ha alcuna ricaduta politica, fa leva eventualmente sul senso di colpa che è il contrario del senso di responsabilità. Tutto si riduce ad uno schema binario: dare o non dare i soldi, e la scelta normalmente va a premiare non le organizzazioni migliori, ma quelle che fanno un marketing più efficace. Ad un' "emergenza umanitaria" se ne aggiunge un'altra, e poi un'altra ancora, e le crisi tendono a diventare strutturali: ci sono paesi in emergenza continua da vent'anni, come il Sudan (vedi reportage su "Galatea", marzo 1999), e se si parla delle mille assurdità, delle mille porcherie del mondo della cooperazione internazionale, si rischia di penalizzare tutti quanti, perché l'ottuso schema binario continuamente riproposto non ammette distinzioni (per cui "meglio non dare soldi, tanto non arrivano").
La retorica dello sviluppo è più complessa, o quanto meno più articolata.
La frase ripetuta fino alla nausea (anche da Veltroni) è la massima : "Non dare un pesce a chi ha fame; insegnagli a pescare", attribuita da qualcuno a Mao, da altri a qualche vecchio saggio cinese. Speriamo di non sentirla più, in futuro, perché ormai è un concetto vuoto che presuppone che il mondo "sviluppato" insegna e quello "sottosviluppato" impara, e mai il contrario. Quarant'anni di fallimenti sembrano non aver insegnato niente: l'Africa, si pensava negli anni Sessanta, avrebbe dovuto ripercorrere le stesse tappe dei paesi avanzati, industrializzazione, urbanizzazione, controllo delle nascite, crescita esponenziale del reddito, passaggio ad un'economia di servizi. Il tutto ad una velocità supersonica, per poter arrivare a livelli almeno simili ai nostri.
Ovviamente non è andata così, e non è detto che sia per forza un male, perché non è detto che il nostro modello di sviluppo sia il più valido. Ma ancora oggi, con l'ipocrita ottimismo della globalizzazione (leggi: americanizzazione), si ripropone la ricetta liberista/consumista come se nulla fosse, per cui Clinton lancia lo slogan "Trade, not aid" ("commercio e non aiuto") come ultimo grido della modernità. E prima che arrivassero le manifestazioni dei no-global - da Seattle a Genova - e le bombe islamiche a scuotere le certezze occidentali della "new economy" e della "new age" , si sentiva dire - nei summit insensati dei G8 - che la soluzione dei problemi africani si chiama soprattutto Internet. Lo sviluppo telematico, ecco l'ennesima formula vuota e ipocrita. Parlare di Internet a chi non ha né scuole né energia elettrica non è molto diverso dal rispondere che "se il popolo non ha pane, si mangi le brioches", leggerezza reazionaria attribuita a Maria Antonietta ai tempi della Rivoluzione francese.
Eppure "..la legge del libero scambio non è più in grado di reggere da sola le relazioni internazionali". E ancora: "..il liberalismo senza freno porta alla dittatura…dell'imperialismo internazionale del denaro"; "la tecnocrazia di domani può essere fonte di mali non meno temibili che il liberalismo di ieri. Economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all'uomo ch'esse devono servire". Non è il manifesto radicale di qualche new global: sono frasi tratte dall'enciclica di Paolo VI Populorum Progressio datata 1967.
La retorica terzomondista è quella meno alla moda, perché è tramontata l'ebbrezza rivoluzionaria che faceva tendenza negli anni Sessanta e Settanta, quella di "uno, cento, mille Vietnam", l'approccio guerrigliero alla disuguaglianza fra Nord e Sud del mondo. Ernesto "Che" Guevara se n'era già accorto, in qualche modo, nella sua esperienza africana del 1965 (vedi "L'anno in cui non siamo stati da nessuna parte"). Ma il "Che" oggi è buono per le magliette e per i tatuaggi, non per gli approfondimenti politici. Eppure le guerriglie di ispirazione marxista-leninista, i vari "Fronti di liberazione nazionale" hanno vinto in Angola, Mozambico, Guinea Bissau, Zimbabwe, Algeria. Ci sono stati regimi comunisti in Etiopia, Guinea, Benin, Mali. Il problema è che non c'è un solo leader rivoluzionario che non si sia dato all'arricchimento personale, dimostrando nei fatti quanta poca sostanza ci fosse nell'ideologia ufficiale. Non potendo più sognare le rivoluzioni altrui, decine di intellettuali militanti in Occidente hanno fatto cadere il silenzio sulle nazioni che avevano esaltato nel loro internazionalismo da quattro soldi. Finché una certa storia corrispondeva in qualche modo alla propria ideologia, andava bene, in caso contrario si rimuoveva, si dimenticava. Questo vale anche per chi si ostina a vedere l' Africa solo in chiave negativa, spesso per giustificare il proprio razzismo latente: quelli che per anni hanno negato la possibilità di una svolta pacifica e democratica per il Sudafrica non hanno perso molto tempo nell'autocritica, e continuano a parlare di democrazia come di un bene occidentale da esportare. Quelli che insistono sempre e solo sul tribalismo, dovrebbero spiegarci perché si è spappolata la Somalia, un dei paesi più omogenei dal punto di vista etnico.
Se l'Africa non risponde alla nostra immagine, buona o cattiva che sia, non deve esistere. Non deve mai alimentare dubbi, ma certezze, positive o negative. L'Africa inferno, miseria, malattia, guerra, tribalismo, corruzione, arretratezza. L'Africa paradiso, ingenuità, tradizione, sentimento, musica, danza, natura selvaggia, fede religiosa. In mezzo, quasi sempre, una beata ignoranza. Proviamo a rovesciare i termini, in un approccio più "laico", più prosaico, soprattutto se meno pathos (e luoghi comuni) significa più informazione. E' anche l'obiettivo di questo spazio, che si propone di
essere un piccolo osservatorio dell'Africa meno conosciuta. Poco sappiamo di questo continente a poche miglia marine dall'Europa, ma in compenso veniamo informati di ogni stupidaggine "made in USA". Forse l'Africa, semplicemente, ha cose molto più interessanti da dire.

Cesare Sangalli