Di cosa parliamo quando parliamo di Africa
Lezioni di calcio
I coccodrilli di Yamoussoukro
Colonnello, non voglio il pane…”
In nome di Allah clemente e misericordioso
L'albero delle donne e la donna degli alberi
Tutti a casa
Democrazia nel deserto
Figli di papà
E' mattina in Etiopia
Hotel Rwanda
Quando il Benin batte l'Italia
Il bandito e il campione
La seconda generazione
Un rebus chiamato Nigeria
Doctor Schweitzer & Mister Hyde

The African Job
Le mani sul Congo
I bravi maestri e i cattivi alunni
Le due Somalie
La luna calante e il giovane re
Democrazia turistica alla tunisina
Alle radici dell'odio
Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 


Osservatorio africano

Pubblicato su “Galatea”, maggio 2005

Hotel Rwanda

“Non sei nemmeno un negro, sei solo un africano”. La frase arriva diretta come un cazzotto allo stomaco, dal comandante delle truppe ONU, interpretato da Nick Nolte, al direttore ruandese dell’hotel “Mille collines” di Kigali, Paul Rusesabagina, interpretato da Don Cheadle. Il film è “Hotel Rwanda”, la storia è vera, verissima: quella di un direttore d’albergo che riuscì a salvare oltre 1.200 connazionali dal genocidio del 1994.
La frase non vuole essere un insulto razzista: è solo l’amarissima, incredibile conclusione del vergognoso balletto diplomatico che accompagna i giorni della mattanza, lo sterminio della minoranza tutsi e degli hutu che si opponevano al regime. Non ci sarà nessun intervento, visto che gli stranieri, gli “occidentali”, sono già stati evacuati: l’orrore finirà per forza di inerzia, e non scuoterà le coscienze di nessuno. Il comandante canadese dei caschi blu, che nella realtà era il generale Roméo Dallaire, l’ha capito, e sbatte in faccia la realtà all’uomo che avrebbe voluto proteggere.
E’ un film di valore assoluto, “Hotel Rwanda”. Andrebbe fatto vedere nelle scuole, passare sulle televisioni nazionali in prima serata, al posto dell’ennesimo e idiota “reality show”, dove di reale non c’è niente. La realtà è proprio brutale come la frase del comandante: i morti africani non sono veri morti, da cui si può desumere che gli africani non sono veri uomini.
Ogni volta che ci troviamo di fronte all’orrore, siamo sempre tentate di rimuoverlo, di estraniarci, allontanarlo il più possibile da noi. Con il Ruanda è stato più facile, inutile fare finta di niente. In maniera più o meno sottile, siamo stati indotti a pensare che erano comunque affari loro, roba da selvaggi, violenze da animali, da esseri non ancora civilizzati. C’è anche la rimozione alla rovescia, dal lato africano: è colpa del Belgio, della Francia, degli Stati Uniti, del colonialismo, del capitalismo, della Chiesa.. Insomma sembra che alla fine l’Olocausto africano non abbia insegnato molto, il che fa pensare che non abbiamo ancora imparato la lezione della Shoà ebraica. E cioè che esiste un solo uomo su questo pianeta, e che ogni forma di distinzione, appena diventa criterio di superiorità o inferiorità, è una bestialità. La notte dell’intelligenza che prima o poi partorisce l’odio. Il caso del Ruanda è assolutamente esemplare. Il cinema in questo caso è lo strumento migliore, perché parla direttamente a cuore, viscere e cervello. Ma qui dobbiamo fare almeno un po’ d’analisi, un po’ di storia, anzi un po’ di “scienza”.
In principio, infatti, fu la maledetta scienza. Quella sana, ci ha recentemente dato la conferma di ciò che tutti avremmo dovuto sapere da un pezzo, per altre strade: dal punto di vista dei cromosomi, sotto il profilo genetico, quello che sta tanto a cuore ai cultori della “razza”, c’è una differenza infima fra ogni etnia del mondo, fra ogni essere umano. L’antropologia pseudo-scientifica degli inizi del Novecento, assai in voga in Germania (ma non solo lì), dette il primo contributo a quello che possiamo chiamare il Mito della Differenza. Il Ruanda era una colonia tedesca. Non esisteva fino ad allora una vera distinzione etnica fra Hutu e Tutsi. Era piuttosto una differenza sociale, nemmeno troppo marcata: i Tutsi per lo più allevatori, con una posizione privilegiata per la tradizione guerriera più marcata, gli hutu per lo più agricoltori, spesso tributari. I rapporti erano sempre stati pacifici, anche perché la lingua era la stessa, la commistione era elevata, sia grazie ai numerosi matrimoni fra i due gruppi, sia per una certa fluidità sociale, per cui c’erano anche hutu ricchi e tutsi poveri. Ma per la stessa linea di pensiero che andava costruendo l’idea della razza ariana, si vollero considerare gli hutu superiori, più alti, belli e intelligenti, ovviamente di un ceppo caucasico ricollegabile a quello europeo. Il primo seme dell’odio era stato gettato. A coltivarlo pensarono i belgi, i nuovi padroni del Ruanda dopo la sconfitta tedesca nella Prima guerra mondiale. In un approccio esplicitamente razzista, gli amministratori coloniali decisero di governare il paese attraverso l’”aristocrazia” tutsi: a loro erano riservati l’esercito, le scuole, gli incarichi statali. Gli hutu erano sottoposti alle umilianti “corvées”, i periodici lavori forzati a colpi di frusta. I tutsi erano diventati gli sbirri dei belgi.
A completare il disastro fu la Chiesa cattolica, che secondo il principio del fine che giustifica i mezzi, convertì il giovanissimo re del Ruanda, Mutara, e quindi, per forza o per amore, fece del Ruanda il più cattolico paese dell’Africa, una definizione rimasta attualissima fino ad oggi ( anche se molto meno sbandierata dopo il genocidio del 1994).
L’infamia razzista venne ufficializzata nel 1933, con l’obbligo di specificare sul documento di identità se si era dell’una o dell’altra “etnia”. La carta di identità, nel 1994, sarà spesso lo strumento usato dagli sterminatori per selezionare quelli destinati al massacro. Proprio come i nazisti con gli ebrei, nei più cattolici paesi d’Europa (Polonia in primis). Ed è proprio nei seminari cattolici che cresce il risentimento hutu nei confronti dei tutsi, presunti dominatori del paese quando erano solo burattini manovrati dagli europei. Studiare da prete per molti anni è il solo modo di salire la scala sociale. E a partire dagli anni Cinquanta, l’atteggiamento ecclesiastico cambia, volendo ora riscattare quelli che erano stati esclusi. Una specie di “teologia della liberazione” di serie B, trasformata in movimento politico da un ex seminarista, Grégoire Kayibanda. Leader carismatico, grande oratore, chiede la fine della monarchia, l’indipendenza totale (il Belgio ha un’amministrazione fiduciaria da parte dell’ONU), l’avvento della democrazia che significherà finalmente il potere agli hutu, che sono la stragrande maggioranza. Secondo alcuni storici, il giovane Kaybanda era un rivoluzionario in buona fede, e le sue idee non erano estremiste. Fatto sta che nel 1959 si scatena la prima ondata di violenze sulla minoranza tutsi, con decine di migliaia di morti. Nel vicino Burundi, avviene l’opposto: grazie allo strapotere militare, la minoranza tutsi ogni tanto fa strage di hutu.
Il Ruanda indipendente dal 1962, con Kaybanda presidente, è un paese già marcio nelle sue fondamenta. Il rapporto di forza, con l’avvento della “democrazia”, si è invertito. Ma il Ruanda resta sempre un buon alleato dell’Occidente. La regione dei Grandi Laghi è talmente ricca dal punto di vista minerario che Belgio, Francia e Stati Uniti non possono abbandonarla.
Nel “paese più cattolico dell’Africa” le violenze si alternano a periodi di relativa calma. Nel 1973, Kayibanda viene deposto da un colpo di stato organizzato dal suo ministro della difesa, Juvénal Habyarimana. Il suo nome è importante perché è proprio l’uccisione di Habyarimana a dare il via al genocidio del 1994. Durante la sua presidenza, iniziano gli attacchi dei tutsi che si sono rifugiati in Uganda, organizzati militarmente nel Fronte patriottico Ruandese (FPR), guidato da Paul Kagame. Dietro le due fazioni, in una guerra commerciale non dichiarata, ci sono gli Stati Uniti e la Francia: il Belgio si accontenta ormai delle briciole.
Con la solita ipocrisia, da una parte si parla di pace, dall’altra ci si arma a tutto spiano, sognando la vittoria finale, definitiva, sul nemico. I più deliranti sono i leader degli hutu, sostenuti dalla Francia, che cominciano a considerare anche il presidente Habyarimana un intralcio verso la “soluzione finale”, lo sterminio totale dei tutsi e degli eventuali oppositori hutu. L’odio che già esiste nel paese viene alimentato per mesi e mesi dalla propaganda, che utilizza principalmente la famigerata radio “Mille collines”. Si organizzano le milizie popolari, si distribuiscono le armi, si individuano gli “scarafaggi” tutsi da colpire quando scatterà il segnale del massacro. La follia genocida è lucidamente pianificata per un lungo periodo, ma nessuno sembra preoccuparsene. Poi, il 6 aprile 1994, l’aereo che trasporta il presidente Habyarimana viene abbattuto mentre sta atterrando all’aeroporto di Kigali. Non si saprà mai chi è stato, accuse e supposizioni al riguardo si sprecano. Per la radio dell’odio, sono stati i tutsi: bisogna ammazzarli tutti, prima che sia troppo tardi.
La peculiarità del genocidio ruandese è che forse gli assassini non erano mai stati così tanti: circa 500mila, compreso una dozzina fra suore e preti (quelli ufficialmente indagati). Una media di un paio di morti a testa, per un totale di un milione di vittime. Nella comunità internazionale, tutti a fare da spettatori: l’Onu di Boutros Ghali (e Kofi Annan), la Francia che ha dato le armi del massacro, gli Stati Uniti che sostengono il cinico leader tutsi Paul Kagame, il quale aspetta ad intervenire, poi vince rapidamente la guerra e pone fine al genocidio (anche se con una lunga serie di vendette sugli hutu).
La Chiesa cattolica sembra molto più preoccupata di nascondere i religiosi implicati nei massacri che non di capire come ha potuto accettare tutta l’omertà e l’inerzia sul Ruanda. Un fatto che resta un’ombra, per quanto rimossa molto bene, anche sul pontificato di Giovanni Paolo II. Il film “Hotel Rwanda”, a distanza di 11 anni, ha il merito enorme di fare sentire nostra, almeno per un paio di ore, tutta la paura e l’impotenza delle vittime, che almeno nel nostro cuore, durante la proiezione, non sono né “negri” né “africani”, né “hutu” né “tutsi”, ma solo fratelli e sorelle.

Cesare Sangalli