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Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

Osservatorio africano

Il bandito e il campione
(pubblicato su “Galatea”, ottobre 2005)

“Ha ucciso mio padre, ha ucciso mia madre, voterò per lui”. Era il ritornello della canzone che accompagnava le elezioni in Liberia del 1997, come riporta Andrew Rice per il “New York Times”. Il candidato-assassino in questione era Charles Taylor , che sarebbe stato eletto con il 75 per cento dei voti. Le prime elezioni della storia liberiana si svolsero in piena guerra civile, se così si può definire la feroce guerra per bande iniziata alla fine del 1989. Un liberiano su tre aveva già lasciato il paese (vedi “Galatea”, dicembre 2001). Il livello di violenza era allucinante, un’orgia di sangue a colpi di machete, quasi sempre ad opera di adolescenti drogati, presi in trappola nella morsa che da vittime li rendeva carnefici. Questo spiega la follia della canzone-slogan e i voti al nuovo presidente: l’orrore, quello magistralmente descritto da Conrad in “Cuore di tenebra” e da Francis Ford Coppola in “Apocalypse now”. Al di là dei brogli, ci fu probabilmente un reale appoggio al criminale Taylor, attualmente in esilio in Nigeria e inseguito dal Tribunale Penale Internazionale. In quel momento era sicuramente il più forte dei signori della guerra, controllava la capitale Monrovia e il traffico dei diamanti, era l’unico che poteva consentire almeno la “pace dei cimiteri”, l’ordine di una dittatura, non importa se corrotta e fondata sul terrore. D’altra parte, nessuno da queste parti aveva mai conosciuto niente di meglio che il potere assoluto di un solo uomo, della sua famiglia e della sua cricca, allargata nella migliore delle ipotesi ad una casta sociale ed etnica. La massima aspirazione del liberiano comune era di ottenere un po’ di benevolenza dal potere, elemosinare qualche favore. Negli anni della guerra civile, nemmeno quello. Un intero popolo poteva chiedere solo pietà: pietà dai bambini – soldato e dai loro comandanti, pietà dalle organizzazioni umanitarie, che sono intervenute tardi e male, pietà nelle strade di Abidjan o di Conakry. Spesso senza ottenerla da nessuno. Perfino un’organizzazione validissima come l’Alto Commissariato per i rifugiati si è lasciata contaminare dalla miseria liberiana e da quella gemella della Sierra Leone: qui c’è stato lo scandalo più grave degli ultimi anni, che ha coinvolto funzionari dell’Acnur, una squallida storia di violenze sessuali, o se volete, sesso in cambio di cibo, di medicine, di protezione. E occorre ricordare di nuovo (“Galatea”, giugno 2004) la totale indifferenza di Pavarotti e della sua consorte, Nicoletta Mantovani, con la regia dell’organizzazione “War Child” che si è già volatilizzata: si sono fatti tutti pubblicità (e anche un po’ di soldi) con il classico concerto di beneficenza, ma ai bambini liberiani non è arrivato assolutamente niente.
La Liberia oggi è un paese di mendicanti. Un destino tragico per una nazione nata in nome dell’affrancamento dalla servitù, come dice anche il suo nome.
Furono gli ex schiavi americani, aiutati dall’“American Colonization Society”, a fondare la repubblica nel 1847. La bandiera copiata dagli Stati Uniti, con una sola stella; la stessa costituzione, e il nome della capitale, Monrovia, dedicata al presidente che aveva consentito i primi insediamenti (Monroe). Gli ex schiavi furono talmente influenzati dal modello che avevano conosciuto oltreoceano da mantenere, in pratica, anche lo schiavismo: nessun diritto civile o politico era riconosciuto agli autoctoni, che rimasero a guardare per ben 133 anni l’élite degli americo-liberiani, il cinque per cento della popolazione, dominare il paese senza il minimo senso di colpa. In pratica una dozzina di grandi famiglie, cristiane protestanti e affiliate alla massoneria (i presidenti avevano la carica di Gran Maestro) si tramandavano il potere, vivendo come i loro ex padroni del Sud, nelle ville di stile coloniale, sfruttando le piantagioni di caucciù e intascando i proventi sulla produzione di gomma e dalla trasformazione di altre materie prime gestite dalle imprese statunitensi (fra cui la Firestone). Il presidente Tubman restò in carica dal 1944 al 1971, continuando a portare il cilindro e a vestirsi come un antico gentiluomo. Il suo successore Tolbert fu l’ultimo della casta degli americo-liberiani. Bastò la feroce determinazione di un sergente di 28 anni, Samuel Doe, per il colpo di stato del 1980: Tolbert e altri 13 ministri furono ammazzati come cani sulla spiaggia di Monrovia, davanti a tutti. Il mondo inorridì (si fa per dire), ma ben presto tutti riconobbero il nuovo uomo forte del paese, il primo presidente autoctono (dell’etnia krahn, per precisione). Charles Taylor era all’epoca un suo collaboratore.
In quegli stessi anni, un ragazzino cresciuto nelle baraccopoli della laguna di Monrovia si stava affermando come calciatore. Il suo nome era George Weah.
A venti anni era già titolare della squadra campione (gli “Invincibile Eleven”) e della nazionale. Grande attaccante, fisico possente, fantasia enorme, individualismo tipicamente africano. Il dittatore Doe lo prese in simpatia, insieme con gli altri calciatori della nazionale, garantendo i soldi necessari a sviluppare le loro capacità. Weah fu acquistato dal Monaco giusto un anno prima dell’inizio della guerra civile. I percorsi del calciatore e del dittatore presero due strade opposte, assolutamente emblematiche.
Il calcio è di gran lunga il settore che ha dato più soddisfazioni all’Africa. Nonostante la scarsità dei mezzi finanziari, il talento e la passione sono tali che nel mondo del pallone il Continente Nero ha saputo emanciparsi alla grande in soli tre decenni dall’era dell’indipendenza. Con l’organizzazione dei Mondiali 2010 affidata al Sudafrica, il percorso di affermazione può dirsi praticamente concluso.
Al contrario, il mondo militare, che in moltissimi casi ereditò il potere dalle potenze coloniali, era ed è rimasto la sciagura di un continente che, è bene ricordarlo, non ha quasi conosciuto le classiche guerre tra stato e stato (con rarissime eccezioni, tipo Eritrea ed Etiopia, o Libia e Ciad). Ma è stato invece dilaniato da decine di guerre interne, una più atroce dell’altra. Portare una divisa, motivo di orgoglio per moltissimi giovani africani, dovrebbe essere ormai una vergogna o quasi. Come è una vergogna il costante, abbondantissimo rifornimento di armi che l’Africa riceve da quasi mezzo secolo, un altro concetto da ribadire fino alla nausea.
Così, mentre Weah spopolava in Francia, prima al Monaco e poi al Paris Saint Germain, il suo ex protettore Samuel Doe andava rapidamente incontro alla stessa fine che lui aveva riservato a Tolbert. Le truppe di Taylor (finanziato all’epoca dal vecchio presidente ivoriano Houphuet Boigny, che aspirava al Nobel per la pace) presero rapidamente il controllo di quasi tutto il paese. Ma presto si staccò una nuova fazione, guidata da Prince Johnson, che si impossessò della capitale, dove si era arroccato Doe, insieme ai suoi fedelissimi.
Fu Johnson a catturare Doe e ad ucciderlo senza pietà, nell’estate del 1990. Ma le fazioni in Liberia si moltiplicavano come cellule cancerose. Prince Johnson none era stato ancora del tutto sconfitto da Taylor che già gli ex partigiani di Doe si erano riorganizzati in un esercito chiamato ULIMO. Ma presto anche l’ULIMO si divise, con le lettere dell’alfabeto corrispondenti alle iniziali dei due comandanti, per cui c’era un ULIMO- J e un ULIMO-K, il primo a prevalenza Krahn, il secondo a prevalenza Mandingo. Questo è per dare il tocco grottesco, che in Africa non manca quasi mai, anche se qualcuno poi si sforza di fornire una lettura politica a queste vicende. In mezzo alle fazioni, che ad un certo punto sono state anche sette, ci si sono messi i militari africani dell’Ecowas, l’organizzazione regionale degli stati dell’Ovest. I quali si sono macchiati a loro volta di massacri di civili, violenze sulla popolazione, stupri, insomma il classico repertorio di ogni guerra che si rispetti (dal Vietnam alla Cecenia, non c’è nessuna distinzione possibile nella brutalità umana, nella logica della sopraffazione). E’ chiaro che per molti anni tutti si sono tenuti alla larga dal carnaio liberiano, dagli Stati Uniti, che hanno sempre avuto un rapporto privilegiato con la Liberia, all’Onu, guidato dall’africano Kofi Annan.
A sistemare la faccenda in qualche modo ci ha pensato l’ultima fazione in gioco, il LURD, una coalizione di oppositori al nuovo tiranno Taylor, ormai presidente legittimamente eletto. Nell’estate del 2003, i guerriglieri del Lurd sono arrivati a Monrovia, e alla fine hanno costretto Taylor ad andarsene.
La guerra è finita più o meno per sfinimento. E’ iniziato il disarmo generale sotto l’egida dell’ONU, adesso finalmente presente in modo adeguato. Molti profughi sono tornati a casa, e nel frattempo era finita anche la guerra in Sierra Leone.
Il governo di transizione è stato guidato da Gyude Bryant, un esponente religioso, uomo al di sopra di ogni sospetto. Per arrivare in due anni alle elezioni dell’undici ottobre 2005, con la candidatura a sorpresa di George Weah.
Il campione è sempre stato tale anche fuori dal terreno di gioco. Weah ha sempre sostenuto la nazionale liberiana, come giocatore e come finanziatore. Ha aiutato centinaia di bambini, dai progetti per l’infanzia alle scuole di calcio.
E’ continuamente circondato da gente che chiede, chiede, chiede. A chi solleva dubbi sulla sua candidatura, sulla sua totale mancanza di formazione politica, Weah risponde invitando a considerare quello che i politici hanno fatto fin qui nel suo paese. “La politica è soprattutto buonsenso”, dice. A fine ottobre sapremo se ce l’avrà fatta. Ma una cosa è certa: lui ha già contribuito a dare speranza al suo paese, e lo ha fatto con l’esempio, perché poteva starsene con la moglie nella splendida villa negli USA, e guardare il suo popolo sofferente con il distacco di chi ce l’ha fatta. Con George Weah presidente, i banditi del passato resterebbero solo un brutto ricordo.

Cesare Sangalli