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Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

 


Osservatorio africano

(pubblicato su “Galatea” DICEMBRE 2005)

 

Un rebus chiamato Nigeria

 

“Ci hanno ingannato. Noi non abbiamo né armi, né munizioni, siamo nelle mani di Dio”. Non credeva più a niente, “Chief” Saro Wiwa, se non alla giustizia celeste.

All'epoca del nostro incontro aveva 92 anni, e parlava con la dignità del vecchio capo africano del suo dolore inconsolabile, per l'impiccagione del suo figlio primogenito, lo scrittore Ken Saro Wiwa, attivista per i diritti del popolo Ogoni, una piccola etnia della zona petrolifera della Nigeria (il delta del fiume Niger).

Sono passati dieci anni, da quel tragico 10 novembre 1995. Il padre di Ken Saro Wiwa è morto, e in Italia esce (finalmente) per gli editori Baldini e Castoldi quel piccolo capolavoro che è “Sozaboy”, la storia amara di un ragazzo soldato, opera scritta usando l'inglese della strada (“rotten english”, lo chiama Saro Wiwa) qualche anno dopo la sanguinosa guerra del Biafra (1967 – 1970). Per molti europei, il Biafra rappresentò il primo impatto con i drammi dell'Africa moderna, tanto che il nome rimase impresso nella memoria collettiva come simbolo di miseria, fame, disperazione. La televisione, diventata ormai bene di massa anche in Italia, portava nelle case della gente un mondo di cui non si sapeva praticamente niente. Ma la potenza delle immagini è spesso direttamente proporzionale alla debolezza dei contenuti: la Nigeria sembra condannata a rimanere avvolta nel silenzio e nel mistero, anche se è il primo stato africano per popolazione (circa 130 milioni di persone), un autentico gigante dai piedi di argilla (bagnati dal petrolio).

La Nigeria è un crogiolo di 200 etnie messe insieme dal colonialismo inglese. Al momento dell'indipendenza (1960) era una repubblica federale composta di solo quattro stati. I tre principali gruppi etnici si erano ritagliati un ordine gerarchico durante l'amministrazione coloniale: gli Hausa del nord, perlopiù musulmani, erano i più forti, perché occupavano gran parte dei posti dell'esercito, e chi guidava l'esercito guidava il paese (in pratica non c'è mai stato un vero governo espresso dai civili). Gli Yoruba del sud ovest, in maggioranza cristiani protestanti, esprimevano i settori economicamente più avanzati, concentrati nella città più importante, Lagos. C'erano infine gli Igbo dell'est, in gran parte cattolici, nella posizione più marginale, aggrappati alla città di Onisha, che è un po' il centro spirituale del paese. E' qui che nacque il tentativo di secessione, guidato ovviamente da un militare (il generale Ojukwu, sostenuto dai francesi) , che proclamò nel 1967 l'effimero stato del Biafra, scatenando una violentissima guerra interna. Una carneficina che fece oltre un milione di vittime: nessuno tentò mai più di minacciare l'unità nigeriana, ma la federazione riconobbe altri otto stati al suo interno, per arrivare successivamente agli attuali 36. L'autonomia dei vari stati è tale che alcuni di questi contemplano l'applicazione della sharia , la legge islamica, quella che ha portato alle condanne assurde di donne come Safya e Amina, salvate dalla lapidazione per la campagna condotta da Amnesty International. La violenza sembra essere endemica in Nigeria: soltanto le proteste per l'elezione di Miss Mondo a Kaduna, alla fine del 2002, causarono 250 morti. A volte sembra un miracolo che uno stato così disarticolato al suo interno possa stare in piedi. Per i campioni della Realpolitk, l'unico pilastro dell'unità nazionale, nonché garante della stabilità, è rappresentato dall'esercito.

Ma la realtà è ben diversa: se la Nigeria non è l'inferno che sembra emergere dallo stillicidio di notizie sempre negative, è merito soprattutto della gente comune, quella che incontri nelle strade delle orrende città nigeriane, persone splendide che sembrano in grado di sopravvivere a tutto: alla povertà, al sovraffollamento, all'avidità delle classi dirigenti, alla brutalità di una dittatura che per fortuna non c'è più. Si potrebbe arrivare a sostenere che più si scende in basso nella scala sociale, più ci si trova a proprio agio. Un percorso a ritroso che in buona parte è stato il percorso di Ken Saro Wiwa. Lo scrittore nigeriano aveva conosciuto uno straordinario successo fin dagli esordi, quando ancora lavorava come funzionario per il governo federale. Fu soprattutto una fortunata serie televisiva, di cui era autore, a dare a Ken Saro Wiwa una notorietà nazionale: si intitolava “ Basi & Company ”, e narrava le avventure quotidiane di un ragazzo di strada che una ne fa e cento ne pensa per mettere insieme il pranzo con la cena. Ma anche i suoi romanzi, a partire appunto da “ Sozaboy ”, lo innalzarono al livello dei grandi scrittori del paese, dal premio Nobel Wole Soyinka a Chinua Achebe. Sulla soglia dei cinquanta, Ken Saro Wiwa aveva tutto quello che un uomo può desiderare. Però continuava a vedere le condizioni penose in cui viveva la gente, soprattutto quella della sua etnia, gli Ogoni, che avevano avuto la disgrazia di vivere in una terra ricchissima di petrolio, il delta del fiume Niger.

La storia del petrolio nigeriano comincia già prima dell'indipendenza. E non a caso in Nigeria, da sempre, è la compagnia anglo-olandese Shell a prendersi la fetta più grande della torta, quasi la metà dei due milioni di barili di greggio al giorno che fanno del paese il primo esportatore africano e l'ottavo produttore mondiale. La Shell comunque è in buona compagnia, dall'americana Chevron alla francese Elf, per non parlare dell'ottima presenza dell'Agip, in joint venture con la compagnia di stato nigeriana. Se leggete i documenti ufficiali prodotti dai solerti uffici stampa delle compagnie, non capirete mai quale sia il problema. Ma basta arrivare a Port Harcourt, dove venne impiccato dopo un processo farsa Ken Saro Wiwa, vicino alle sedi delle compagnie petrolifere che sono come tanti “Fort Apache” isolati dalla miseria, per rendersi conto della situazione (vedi “Galatea”, ottobre 1999). Quando cala la notte, il buio si impadronisce della città. Quarantacinque anni di sfruttamento petrolifero non hanno garantito nemmeno l'elettricità nel centro principale, figuratevi nei villaggi.

L'aria è inquinata, l'acqua avvelenata, i campi sono diventati sempre più sterili, i pesci imbottiti di mercurio. Poche scuole, pochissimi ospedali, il settanta per cento della popolazione che vive sotto la soglia della povertà. Le compagnie realizzano alcuni progetti, con grande pubblicità, che sono come poche briciole buttate agli affamati alla fine dell'orgia energetica, e le compagnie lo sanno benissimo. E il governo? Il governo, partner fedelissimo delle multinazionali, anzi, garante del saccheggio territoriale, è stato il buco nero attraverso il quale è sparito un fiume spaventoso di denaro, per la gioia delle banche europee (svizzere in primis).

Un film già visto, si dirà, e purtroppo è vero. Ma il livello raggiunto dalla Nigeria negli anni Novanta è da incubo. Il dittatore Babangida, nel 1993, organizza elezioni pilotate che dovevano garantire il ritorno dei civili al governo. Ken Saro Wiwa, che da anni si batteva contro lo sfruttamento della sua terra e del suo popolo, non partecipò a quella che per lui era solo una montatura. Ma il vice di Babangida, Sani Abacha, non accetta nemmeno questa parvenza di democrazia: annulla le elezioni e fa arrestare il vincitore, il miliardario filogovernativo Moshood Abiola, rovinando il giochino tanto caro agli “esportatori di democrazia”, U.S.A. e Gran Bretagna.

Iniziò un periodo di repressioni brutali. Il premio Nobel Soyinka dovette scappare in esilio. Ken Saro Wiwa fu arrestato con false accuse, e condannato a morte.

Nelson Mandela iniziò una campagna diplomatica per chiedere sanzioni internazionali, a partire dall'embargo petrolifero. Gli “esportatori di democrazia” (e di petrolio), ovviamente, si opposero. Quando lo scrittore nigeriano venne impiccato, la Nigeria fu sospesa dal Commonwealth, che finalmente mostrò un po' di determinazione, intimando al dittatore Abacha di ripristinare la “democrazia” nel giro di due anni. Abacha se ne infischiò allegramente, continuando a vivere blindato nel suo bunker, circondato di stregoni e concubine, dedito al sesso e all'esportazione di capitali nei suoi conti personali in Europa (cifre che rappresenterebbero il PIL di una piccola nazione) . Per le compagnie non cambiava assolutamente niente: la Nigeria stava affogando in un mare di petrolio nell'indifferenza generale.

A questo punto, nella storia si inserisce Dio, dopo che Abacha aveva platealmente sfidato il suo rappresentante Giovanni Paolo II , rifiutandosi di ascoltare almeno la richiesta di rilascio di un centinaio di detenuti politici, dopo la visita del pontefice nella Nigeria umiliata e dimenticata. E' il 1998: Abacha muore misteriosamente.

Per i nigeriani poveri, traditi da tutti, è stata la mano della Provvidenza. Per i non credenti, un banale infarto da affaticamento sessuale. Per i tradizionalisti africani, una dose del classico veleno dei feticheurs . La Nigeria torna a vedere un po' di luce, con il ritorno alle urne e la doppia affermazione (1999 e 2003) del saggio Olesegun Obasanjo, militare in pensione. L'incubo della dittatura militare è finito, il paese è sicuramente più libero, e nessuno scrittore oggi farebbe la fine di Ken Saro Wiwa.

Ma la sostanza economica non è cambiata, la povertà degli Ogoni e dei nigeriani è la stessa, sono aumentati soltanto i lprofitti delle compagnie petrolifere (e chi ha azioni dell'ENI lo sa perfettamente). Il vecchio Saro Wiwa, nel suo amaro disincanto, aveva già capito che il ritorno della “democrazia” non avrebbe portato frutti: “Ci hanno ingannato. Non abbiamo né armi, né munizioni. Siamo nelle mani di Dio”.

 

Cesare Sangalli