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The African Job

(pubblicato su “Galatea”, aprile 2006)

 

Questa è una storia in inglese, come indicato nel titolo. Va seguita con distacco “british” e con ottimismo “yankee”, anche se è costellata di violenze mostruose e di personaggi grotteschi. E' la storia dell'Uganda, e l'”African Job”, il “lavoro africano” (in questo caso “job” indica in realtà la rapina, il colpo grosso), è quello iniziato più di 40 anni fa dal Regno Unito e portato avanti dagli Stati Uniti d'America nella regione dei Grandi Laghi. Una specie di gioco dei pupi che vede dietro le quinte una sfida all'insegna della libera concorrenza fra gli angloamericani e i francofoni (Francia e Belgio). La storia può iniziare come una favola, che narra di re e regine, e finire come cronaca, con presidenti della repubblica eletti dal popolo sovrano. Londra e Washington, vere capitali del capitalismo mondiale, ammettono solo l'”happy end”, il lieto fine obbligatorio, che prevede il trionfo della democrazia.

C'è da chiarire subito una cosa: gli angloamericani sono imbattibili nel gioco dell'informazione, nell'influenzare il giornalismo mondiale, con quello stile sobrio e apparentemente imparziale che li rende così autorevoli. La Francia al confronto è tutta un “vorrei, ma non posso”. Per contro, l'Africa è costretta al mutismo e l'Italia condannata all'ignoranza, anche se alla fine il miglior giornalismo europeo sul Continente Nero lo fanno spesso i missionari, in buona parte italiani (da “Nigrizia” all'agenzia MISNA). E veniamo alla nostra storia.

C'era una volta una regina, che si chiamava Vittoria come il lago più insanguinato d'Africa che porta il suo nome, e che aveva costruito un Impero che percepiva se stesso come il nuovo Impero Romano (per dirla in stile Hollywood “come la luce della civiltà in mezzo alle tenebre della barbarie”). In Africa, l'Impero britannico seguiva principalmente un asse nord-sud, “dal Capo al Cairo”, cioè dal Sudafrica all'Egitto. Nel cuore di questo straordinario pilastro, la regione dei Grandi Laghi, formata da Kenya, Uganda e Tanzania. Qui si concentrava tutto l'immaginario europeo, quello dei safari, delle cacce agli elefanti, di Hemingway , di Karen Blixen e di “Gorilla nella nebbia”. Cinema, fumetti, letteratura, un solo grande fascino esotico. La realtà sempre e solo sullo sfondo, in questo quadro stile “National Geographic”, con gli africani ridotti a comparse, non molto diversi dalle giraffe e dai leoni. Guai a parlare di politica o di economia, l'immaginario collettivo non andava turbato, almeno fino alla scoperta televisiva delle grandi tragedie africane, alla fine degli anni Sessanta.

Dalla regina Vittoria alla regina Elisabetta, l'atteggiamento mentale non era molto cambiato. Ma il colonialismo “old style” aveva ormai fatto il suo tempo, era arrivato il momento di concedere l'indipendenza, e visto che in un secolo nessuno si era sognato di lavorare per l'emancipazione degli africani, la classe dirigente ritenuta più “affidabile” dagli agenti di Sua Maestà non poteva che essere rappresentata dai soldati che il glorioso esercito britannico aveva addestrato, o dai pochi fortunati che erano riusciti a studiare e ad avere un qualche ruolo nell'amministrazione coloniale (per i popoli africani, con poche eccezioni, si riveleranno una disgrazia tanto i primi che i secondi).

Così, l'Uganda diventa indipendente nel 1962, con il re Mutesa II capo dello stato senza potere effettivo, e Milton Obote capo del governo. Obote, classe 1924, appartiene ai pochi fortunati di cui sopra: figlio di un capo villaggio del nord, insegnante di formazione e poi funzionario sotto gli inglesi, è molto ambizioso e meno facile da manovrare per gli antichi padroni. Nel 1966, con un colpo di stato cruento, spedisce in esilio il re, proclama la repubblica e il suo personale regime. Vuole riscattare le etnie di minoranza e instaurare quello che lui definisce “socialismo al 60 per cento”, cioè un'economia controllata prevalentemente dallo stato.

Al suo fianco, come capo dell'esercito, c'è invece il classico soldato africano, addestrato nei “King's Rifle” scozzesi, Idi Amin Dada. Coetaneo di Obote, Amin è un gigante di quasi due metri, pugile di rango, campione dei pesi massimi ugandesi. Un grosso caporale apparentemente gioviale e gaudente, ma all'occorrenza violento e spietato: gli inglesi lo utilizzano nella repressione dei Mau Mau, la setta che lotta con ogni mezzo per l'indipendenza del Kenya. Nel 1971, approfittando dell'assenza di Obote, Idi Amin Dada, conquista il potere, con la benevolenza degli angloamericani che non avevano certo apprezzato il “socialismo al 60 per cento” del presidente e la vicinanza al tanzaniano Julius Nyerere, ostinato avversario del Sudafrica razzista (uno dei pochi “padri della patria” africani da salvare).

Agli inizi degli anni Settanta va di moda un grottesco tentativo di nazionalismo africano, portato avanti dai burattini filoccidentali: Mobutu resta il maestro indiscusso nel tentativo tutto esteriore di tornare ad una “grandeur” africana, imitato dal ciadiano Tombalbaye, e seguito a ruota da due ex soldati dell'esercito coloniale che pensano di essere diventati davvero importanti: uno è appunto Amin, l'altro è Jean Bédel Bokassa, imperatore del Centrafrica. Triste ma vero, sono probabilmente i due leader più famosi di tutta l'Africa nera, gli unici conosciuti un po' da tutti in Europa. Le loro carnevalate fanno molto più notizia dei loro massacri, della loro violenza efferata, del loro sadismo paranoico.

Idi Amin Dada che si fa fotografare su una portantina tenuta da un gruppo di europei, uno dei quali regge anche l'ombrello per il sole. Bokassa sul trono d'oro, con la corona e la pelliccia di ermellino, circondato da ussari in alta uniforme. Amin scrive messaggi alla regina Elisabetta come fosse una cugina, si proclama “ultimo re di Scozia”, si propone come mediatore dei grandi conflitti internazionali. Bokassa dà del tu a Giscard d'Estaing, imbarazzandolo continuamente con i suoi approcci confidenziali. Entrambi svuotano allegramente le casse di stato, per la gioia dei committenti europei (dai produttori di champagne, che arriva in quantità industriali, alle solite, immancabili Mercedes che fanno tanto status symbol).

Entrambi verranno successivamente accusati di cannibalismo, anche perché nelle celle frigorifere dei loro lussuosi palazzi verranno trovati pezzi di cadaveri surgelati. Entrambi cadranno nel 1979, Bokassa con un intervento diretto dei francesi che si erano stancati dei suoi eccessi, Amin, ormai caduto in disgrazia nelle preferenze dei suoi antichi sponsor, per mano dell'esercito tanzaniano che consente a Obote di tornare al potere.

Obote scatena una repressione feroce contro i sostenitori di Amin (che nel frattempo, si è convertito all'Islam e, con l'aiuto di Gheddafi e il contributo tecnico dell'Alitalia, è andato in esilio in Arabia Saudita, da dove continua a finanziare i suoi movimenti guerriglieri) e contro le altre fazioni in lotta per il potere, una delle quali è guidata da Yoweri Museveni, futuro campione della democrazia africana .

Museveni è un'ex studente marxista, laureato in Tanzania. Ha fondato il Fronte degli studenti rivoluzionari, di cui faceva parte anche l'amico John Garang, che guiderà la SPLA nel Sud Sudan. Addestrato in Mozambico dal Frelimo, Museveni fa parte della generazione dei “sessantottini” africani, se così si possono definire: iniziano come avversari irriducibili dell'“imperialismo capitalista europeo e americano” e finiscono come leader a libro paga della Cia, per consacrarsi poi capi di stato nelle loro ville di lusso, pronti a concedere ogni beneficio alle multinazionali.

Museveni guida la sua fazione guerrigliera alla conquista del potere nel 1986. Riesce a riportare un po' di ordine in un paese dilaniato dalla guerra civile. Si inventa la formula della “democrazia senza partiti”, cercando di non esasperare il pugno di ferro (ma all'occorrenza sa essere spietato, come ogni militare africano). Apre le porte agli investitori stranieri, che arrivano a frotte in un paese che Churchill aveva definito “la perla dell'Africa”, e dove adesso si può vivere bene quasi come in Kenya. I media angloamericani lo dipingono come l'astro nascente della politica africana.

La realtà è che l'Uganda diventa rapidamente la testa di ponte dei loro interessi nell'area, nonché la base militare per gli altri fedelissimi (come il ruandese Kagame) che operano nella regione dei Grandi Laghi, quella delle risorse minerarie dell'ex Congo belga.

Aree per lo più francofone, tradizionalmente legate a Parigi e Bruxelles. Aree di una guerra permanente e dimenticata, di cui non parla quasi nessuno, e nella quale l'Uganda di Museveni e il Ruanda di Kagame svolgono un ruolo determinante.. I due leader non hanno nulla da temere: stanno dalla parte giusta, sono stati riconosciuti come presidenti democratici, fanno parte ufficialmente della schiera dei “buoni”. A chi importa se dopo vent'anni di potere l'Uganda non è ancora pacificata, se Museveni ha fatto strame della Costituzione per garantirsi la rielezione di quest'anno, se ha fatto subito arrestare il suo principale avversario, Besigye, appena questi ha rimesso piede in Uganda, se ha corrotto i membri del parlamento e intimidito ogni forma di dissenso? Per la comunità internazionale, le elezioni di marzo sono state regolari: Museveni è il presidente del popolo fino al 2011, quando celebrerà, vero record democratico, 25 anni al potere, e i suoi sponsor potranno dire: “Happy birthday, Mr. President”.

Cesare Sangalli