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Osservatorio africano

 

Le mani sul Congo

(pubblicato su “Galatea”, maggio 2006)

 

“La storia del Paese del Grande Fiume comincia nel 1870 con il secondo re di un giovane e minuscolo paese occidentale, che si faceva chiamare Paolo II. Paolo II era troppo grande per il suo regno di 30mila chilometri quadrati, troppo ambizioso, complicato e contorto per otto milioni di europei piccolo-borghesi, cristiani e pacifici…” . Lo scrittore ivoriano Ahmadou Kourouma, con la sua straordinaria capacità narrativa, racconta nel suo capolavoro “Aspettando il voto delle bestie selvagge” (vedi “Galatea”, marzo 2005) la storia di alcuni paesi africani e dei loro tiranni, sotto forma di favola moderna: il Paese del Grande Fiume è il Congo (ex Zaire), il re Paolo II è in realtà Leopoldo II, e il minuscolo paese occidentale è il Belgio.

Vista da una prospettiva africana, la storia del Congo non può che apparire incredibile, una sorta di leggenda nera del colonialismo, anche perché in Europa di questa storia si perdono misteriosamente le tracce. Il Belgio neutrale, pacifico, vittima innocente di due guerre mondiali, il Belgio su cui i francesi scherzano da sempre non sembra avere “ le physique du r^ole” per una vicenda così enorme, come abbiamo avuto già modo di dire in questa rubrica, parlando di Ruanda e Burundi. Tutto sembra esagerato, nella crudele favola del Paese del Grande Fiume. A partire dal fatto che un insignificante monarca europeo, accampando scopi scientifici e umanitari, riesca a impossessarsi, come proprietà personale , di un paese che è ottanta volte più grande del suo, il cuore nero dell'Africa esplorato da Livingstone e Stanley, un forziere di tesori inauditi e maledetti. Ma è proprio così, è esattamente quello che stabilì la famosa (dovremmo dire famigerata) Conferenza di Berlino del 1884: lo “Stato libero del Congo”, terra vergine per missionari, geografi e avventurieri, venne affidato a Leopoldo II, con l'accordo implicito che tutte le altre potenze avrebbero avuto un'ampia libertà di manovra nello sfruttamento delle risorse naturali del paese.

Altri tempi, si potrebbe pensare, per quanto già all'epoca esistessero democrazie a suffragio universale e circolasse il nuovo verbo comunista (Marx era morto un anno prima). Fatto sta che la durezza brutale del colonialismo belga, temperata in modo quasi schizofrenico dall'attività della Chiesa cattolica, è andata avanti tranquillamente fino alla fine degli anni Cinquanta, fino all'irrompere sulla scena politica mondiale di nuovi leader del sud del mondo, alfieri veri o presunti delle istanze terzomondiste, nobili padri della patria o avventurieri sanguinari, menti illuminate o pazzi megalomani, a volte un po' l'una e l'altra cosa.

Il Congo belga aveva Patrice Lumumba, ma aveva anche Joseph Desiré Mobutu.

“L'uomo alto e magro parlava in modo diverso. Diceva che la nostra tribù non era sola, che esisteva una famiglia di tribù chiamata nation congolaise , che dovevamo essere tutti fratelli e che questo ci avrebbe dato la forza”. Così Ryszard Kapuscinski ricorda la figura del giovane Lumumba, e aggiunge: “Non c'è niente in quest'uomo che si presti ad una definizione. Irrequieto, entusiasta, caotico, poeta sentimentale e politico ambizioso, un'anima elementare, superba e umile allo stesso tempo”. Lumumba è l'unico leader con una visione autenticamente nazionale e progressista, l'unico che sa parlare alla gente senza cadere mai nella facile trappola delle divisioni etniche di una terra tanto vasta e scarsamente collegata, divisioni che i belgi, in rappresentanza del mondo occidentale, cominciano già ad alimentare. Guarda caso, non passa neanche un mese dalla proclamazione dell'indipendenza (30 giugno 1960), che una delle regioni più ricche di miniere, il Katanga, si dichiara indipendente: la secessione è guidata da Moisé Ciombé, un burattino dei belgi, che lo proteggono con un esercito di mercenari. L'ONU, per la prima volta nella sua storia, invia un contingente di caschi blu a far finta di prevenire la guerra civile. Il presidente del Congo è Joseph Kasavubu, Lumumba è il primo ministro, mentre il capo di stato maggiore è Mobutu, “l'uomo dal totem leopardo”, come lo definisce Ahmadou Kourouma, che spiega:“ le virtù cardinali della sua tribù sono la menzogna, il furto, e il coraggio. Con coraggio, l'uomo dal totem leopardo saprà meravigliosamente mentire per rubare e uccidere”. Dietro il colonnello Mobutu c'è la CIA , ci sono i consiglieri militari di Washington e di Parigi, per i quali Lumumba è un pericoloso “comunista” da eliminare. L'Occidente ordina, Mobutu esegue, arrestando Lumumba, ma sono i belgi che si incaricano di ucciderlo, in circostanze poco chiare: è il 17 gennaio 1961, le speranze del Congo muoiono quel giorno. Il paese è in subbuglio, sembra condannato alla destabilizzazione permanente, le compagnie minerarie creano eserciti e leader dal nulla, ma nella capitale Lèopoldville (l'attuale Kinshasa) la lotta politica è fra il presidente Kasavubu e Ciombé, che è stato chiamato a dirigere il governo.

Nel 1965, l'ineffabile Mobutu mette tutti d'accordo con un colpo di stato. Ora è lui il nuovo padrone, gli interessi occidentali sono ben tutelati. La Seconda Repubblica , cioè il dominio totale di Mobutu sul Congo, durerà 32 anni.

Per tutto questo tempo, uno dei paesi potenzialmente più ricchi del mondo, uno dei maggiori produttori di diamanti, oro, rame, cobalto, uranio e poi anche di coltan che serve per realizzare i microchips, per non parlare delle risorse agricole e forestali, del caucciù e da ultimo perfino del petrolio, resta uno dei meno sviluppati, senza ospedali, strade, scuole, senza medici e infermieri, senza la minima prospettiva di miglioramento della qualità della vita per una popolazione che è oggi di poco inferiore a quella italiana, e che fino agli anni Ottanta non raggiungeva nemmeno i 30 milioni.

In altre parole, in Congo si è perpetrato il più grande saccheggio della storia contemporanea. La quantità di denaro sottratta da Mobutu alle casse dello stato è astronomica, quasi inimmaginabile. Ma il lato africano del saccheggio è solo la parte più visibile: tutto il resto ha ingrassato le multinazionali di tanti paesi occidentali. Una voracità da leggenda, talmente grande che non è stata mai presa in considerazione da nessuno. Mai visto un solo reportage sullo sfruttamento minerario del Congo. Mai visto fare i conti in tasca ad una sola compagnia, mai sentito fare un nome, mai indicato un responsabile. La leggenda nera del Congo non si può raccontare. Mobutu per molti anni è stato famoso soprattutto per il suo cappello di leopardo. Faceva parte della politica dell'“autenticità” lanciata nel 1971, quando il dittatore ribattezzò Zaire l'ex Congo belga e Kinshasa la capitale. I congolesi subirono anche lo spettacolo del nazionalismo di cartone del loro “vero capo africano”, l'uomo che riuscì a portare nel cuore dell'Africa il match forse più famoso della storia del pugilato, l'incontro del secolo fra Cassius Clay-Mohamed Alì e George Foreman, nell'autunno del 1974 (vedi il bellissimo documentario “When we were kings”).

A scuotere la tirannia ormai marcia fino al midollo di Mobutu furono le conseguenze delle tragiche “guerre” dei Grandi Laghi, le carneficine di Ruanda e Burundi, due altre perle coloniali del Belgio, e la concorrenza fra Francia e Stati Uniti per esercitare l'influenza più importante in questa regione disgraziata.

Le forze guidate da Laurent Kabila, guerrigliero di lungo corso, che era stato compagno d' armi di Ernesto “Che”Guevara durante l' esperienza congolese del rivoluzionario cubano (vedi il libro autobiografico “L'anno in cui non siamo stati da nessuna parte”) conquistarono rapidamente il paese. Erano soldati tutsi del Congo, erano ruandesi e ugandesi dei nuovi regimi fedeli a Washington, erano zairesi ribelli. Mobutu, malato di cancro, giudicato ormai finito a livello internazionale, con il malloppo già messo al sicuro e una villa pronta in Marocco per l'esilio dorato della sua famiglia, si squagliò: l'esercito governativo non poteva certo immolarsi per lui. Ma il rapido successo di Kabila (assassinato nel 2001 e sostituito dal figlio Joseph) non fu l'inizio di una nuova era, perché ormai troppe fazioni erano entrate in gioco, e troppi paesi, confinanti e non, volevano prendersi una fetta del tesoro congolese: oltre a Ruanda e Uganda, anche Angola, Namibia, Ciad e Zimbabwe. Qualcuno ha parlato di “Prima guerra mondiale africana”.

Fra il 1997 e il 2003, questa guerra di tutti contro tutti ha fatto tre milioni di morti. Il mondo occidentale non se ne è quasi accorto. Ma ad armare le varie fazioni ci sono gli stessi protagonisti della sporca guerra civile del 1960, con gli stessi interessi, le stesse dinamiche, le stesse ipocrisie. E c'è anche l'ONU, che finalmente, nel novembre 2003, ha espresso attraverso il Consiglio di Sicurezza una condanna per il “diffuso sfruttamento illecito delle risorse naturali della RDC, che ha finanziato le attività dei gruppi combattenti”. Il rapporto fa i nomi di 85 compagnie, fra cui grandi multinazionali. Una notizia per pochi intimi, occultata come sempre. Dal 2003 si è raggiunta una fragile tregua. L'anno scorso, in condizioni difficilissime, è stata approvata la nuova costituzione. La risposta del popolo congolese è stata straordinaria. Ora tutti aspettano le prime elezioni libere della storia del Paese del Grande Fiume. Dovevano svolgersi l'anno scorso, sono state rimandate al giugno prossimo, ma forse saranno ulteriormente posticipate. E' davvero un momento storico, per questa nazione emblema dell'Africa sfruttata e umiliata: speriamo che l'Occidente si degni di raccontarlo, altrimenti dovremo aspettare, fra qualche anno, un'altra triste favola di un vecchio cantastorie africano.

 

Cesare Sangalli