Di cosa parliamo quando parliamo di Africa
Lezioni di calcio
I coccodrilli di Yamoussoukro
Colonnello, non voglio il pane…”
In nome di Allah clemente e misericordioso
L'albero delle donne e la donna degli alberi
Tutti a casa
Democrazia nel deserto
Figli di papà
E' mattina in Etiopia
Hotel Rwanda
Quando il Benin batte l'Italia
Il bandito e il campione
La seconda generazione
Un rebus chiamato Nigeria
Doctor Schweitzer & Mister Hyde

The African Job
Le mani sul Congo
I bravi maestri e i cattivi alunni
Le due Somalie
La luna calante e il giovane re
Democrazia turistica alla tunisina
Alle radici dell'odio

Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

Lezioni di calcio

“Il mondo è rotondo perché Dio è tifoso di calcio”, scrive un giornalista tedesco citando Eduardo Galeano. Il calcio, come e più di ogni altro sport, è spesso il vero esperanto del pianeta, un linguaggio universale che vale a tutte le latitudini o quasi. Un’invenzione inglese diventata patrimonio europeo e sudamericano che appartiene ormai all’intero pianeta.
L’assegnazione dei mondiali del 2010 al Sudafrica (dopo che gli erano stati scippati quelli del 2006 in favore della Germania) è il riconoscimento definitivo dell’uguaglianza calcistica (almeno quella). Non è stato un percorso semplice, e soprattutto non è stata una benevola concessione, ma il logico punto di arrivo di un continente che ha saputo ribellarsi al ruolo di Cenerentola che i dominatori del pianeta (in questo caso il pianeta football) gli avevano assegnato. Parafrasando Nelson Mandela, “un lungo cammino verso la parità”.
Quando si disputa la prima Coppa d’Africa per Nazioni, nel 1957, le nazioni esistenti sono solo sei: Egitto, Marocco, Tunisia, Libia, Etiopia e Sudan. Quattro arabe e due dell’Africa nera (il Sudan in realtà è un mix delle due appartenenze). Quello stesso anno si aggiunge anche il Ghana.
Il colonialismo è alla frutta, e con l’avvento degli anni Sessanta l’Africa si presenta al mondo moderno per la prima volta indipendente. Nel 1963 nasce l’Organizzazione per l’unità africana (OUA), con sede ad Addis Abeba e secondo un principio fondamentale, che dimostra la grande saggezza dei nuovi arrivati, degli “immaturi”: i confini lasciati dalle potenze coloniali, per quanto arbitrari, non saranno modificati. Il continente nero non nasce quindi all’insegna delle grandi guerre nazionali, stato contro stato, territori conquistati e perduti, “spazi vitali”, tentazioni imperiali: i pesci grossi convivono con quelli piccoli, i conflitti fra stato e stato sono praticamente inesistenti, e lo resteranno fino ad oggi. Non è cosa da poco, eppure questo grande risultato è sempre stato visto come un dettaglio storico irrilevante.
Il calcio sembra seguire questa linea “pluralista”: non ci sono poche nazioni dominanti e tante comprimarie. Sia nella scelta dei paesi organizzatori sia nelle squadre che arrivano a vincere il titolo continentale si assiste ad una continua alternanza di grandi e piccoli stati, di nazioni “ricche” e nazioni povere. Nell’elenco figurano tanto la Nigeria (130 milioni di abitanti) quanto la Tunisia (poco più di otto milioni di abitanti). La Libia ha lo stesso palmarès del Mali, con un reddito medio pro capite 22 volte superiore (5mila dollari annui a fronte di soli 230).
Il pianeta calcio in Africa gode fin da subito di grande vitalità e sorprendenti capacità organizzative: ma nel mondo che conta, la FIFA, non sembra accorgersene nessuno.
Le squadre africane sono tranquillamente ignorate fino al 1970, quando ottengono l’elemosina di un posticino nel grande rito mondiale che si celebra ogni quattro anni, e che ha già superato le Olimpiadi per importanza e popolarità. La prima squadra chiamata a rappresentare il continente africano è il Marocco, che partecipa senza troppo sfigurare ai mondiali messicani, quelli della mitica semifinale Italia-Germania 4-3, quelli del Brasile di Pelè. Il primo tabù è infranto.
Quattro anni dopo, in Germania, c’è il debutto assoluto di una squadra dell’Africa nera: lo Zaire di Mobutu, l’ex Congo belga delle grandi tragedie. La prima recita andò malissimo: gli zairesi presero una caterva di gol senza segnarne nessuno. Fra risate di scherno e generica compassione per i deboli, la partecipazione dell’Africa al Gotha del calcio sembrava solo l’immancabile nota di colore in uno spettacolo sempre più televisivo. Ma i giocatori zairesi furono pesantemente contestati quando tornarono in patria, perché erano rimasti molto sotto le loro reali possibilità.
La prima sorpresa sportiva venne dalla Tunisia, unica africana ai mondiali argentini del 1978, capace di dare spettacolo e strapazzare il Messico 3-1. Fu poi ingenua e sfortunata contro altre due grandi europee, Germania e Polonia, e quindi eliminata al primo turno. Ma un altro tabù era stato infranto, il tempo del folklore stava finendo.
Ai mondiali del 1982 in Spagna, allargati a 24 partecipanti, l’Africa otteneva due squadre alla pari dell’Asia. L’ottimo Camerun concluse imbattuto la sua partecipazione, eliminato per un gol di differenza dall’Italia che poi avrebbe vinto il titolo. L’Algeria dette un’altra spallata alle gerarchie mondiali battendo la Germania, che sarebbe poi arrivata alla finale contro l’Italia. Una soddisfazione platonica, perché i nordafricani non riuscirono comunque a superare il primo turno. Ma per eliminare gli algerini, Germania e Austria si imposero di giocare una partita vergognosa, che terminò con l’unico risultato che poteva qualificarle entrambe (vittoria della Germania per 1-0, sotto i fischi assordanti del pubblico).
Nessuna variazione ai mondiali in Messico del 1986 (ma il Marocco supera per la prima volta il primo turno), né a quelli in Italia del 1990: l’Africa continua ad avere due sole squadre, anche se il calcio del continente, seguendo una parabola inversa rispetto all’economia, continua a crescere. E sono proprio i mondiali in Italia a segnare la svolta, irreversibile. Che qualcosa è cambiato per sempre lo si capisce dalla partita inaugurale, Camerun-Argentina a San Siro. I “leoni indomabili” con una partita tosta e combattuta, battono l’Argentina di Maradaona campione in carica. Non è un fuoco di paglia: ai noiosissimi mondiali italiani, avari di gol e di spettacolo, l’unica squadra capace di regalare divertimento ed emozioni è proprio il Camerun, che manca di un soffio lo storico traguardo delle semifinali per sfortuna e ingenuità (sconfitta in extremis con l’Inghilterra).
La FIFA concede la terza squadra all’Africa, un risultato strappato sul terreno di gioco, perché politicamente ed economicamente le federazioni africane non hanno il minimo peso. Nonostante l’enorme gap di partenza, i calciatori africani si impongono in tutti i campionati europei, raggiungendo un successo e una fama impensabili solo dieci anni prima. Ed è straordinaria la naturalezza con cui vivono il passaggio dalla povertà alla ricchezza, dall’anonimato alla gloria. Praticamente nessuno si atteggia a personaggio, nessuno si monta la testa o fa parlare di sé fuori dal rettangolo verde. Sono professionisti seri, uomini semplici. Il più rappresentativo fra loro è senza dubbio l’attaccante George Weah, forse la prima vera stella mondiale del calcio africano. Liberiano, classe ’66, Weah fa impazzire Parigi giocando in una squadra un po’ snob, il Paris Saint Germain. Nel 1994 va al Milan per ereditare la maglia di centravanti del grande Van Basten. E’ lui adesso il nuovo re di San Siro: gol, spettacolo, soldi, spot pubblicitari. Ma George Weah non dimentica mai, in nessun momento, il suo paese di origine, martoriato dalla guerra civile: continua a giocare con la nazionale liberiana, su campi impossibili, in condizioni sportive inenarrabili (doveva gestire le sue partite con l’ex presidente e criminale di guerra Charles Taylor, che arriverà a minacciarlo di morte). Il suo impegno, quasi nell’ombra, non è solo sportivo: se la nazionale liberiana sta in piedi lo si deve anche e soprattutto ai suoi generosi contributi. Cerca di finanziare anche i centri sportivi per i ragazzini liberiani. Proprio come Pavarotti e il suo concerto di beneficenza con “War Child” per i bambini soldato e le vittime della guerra civile: peccato che i ragazzi di Monrovia non hanno visto la minima realizzazione, i soldi si sono volatilizzati e chi li ha gestiti (Nicoletta Mantovano) sembra non avere la più pallida idea di dove siano finiti (come denunciato da “Report” di Milena Gabbanelli).
I calciatori africani sembrano esaltarsi quando giocano per le loro rappresentative nazionali. La Coppa d’Africa continua la sua linea “democratica”, chiamando professionisti e non a disputare il torneo anche i paesi molto poveri, come il Burkina Faso nel 1998 e il Mali nel 2000, dimostrando che non occorrono scenografie costosissime quando c’è di mezzo lo sport (messaggio completamente ignorato dal resto del mondo).
In un calcio sempre più privatizzato e guidato dalle esigenze televisive, la nazionale tende a diventare un fastidioso ingombro per i grandi club che gestiscono il business. Gli incontri si moltiplicano come il pane e i pesci, si gioca ormai tutta la settimana, inseguendo sempre più audience, più soldi, più marketing. Ma questo calcio fast food, che consuma tutto ad una velocità impazzita, sta perdendo l’anima, che i tornei per nazioni restituiscono, almeno in parte. Le nazionali sono un po’ il settore pubblico del calcio, con il loro apparato di inni, bandiere, emozioni universali, un settore non inflazionato perché ha conservato i suoi ritmi storici (la cadenza quadriennale di mondiali e olimpiadi). Ed è in questo campo che l’Africa raccoglie i successi più grandi, finendo la rincorsa che da ultimi del mondo porta in vetta, alla medaglia d’oro olimpica, vinta dalla Nigeria nel 1996 ad Atlanta e dal Camerun nel 2000 a Sidney. Primi, finalmente primi, il mondo guardato per una volta dall’alto in basso.Per fortuna, come annota Eduardo Galeano nel bellissimo “El fùtbol a sol y sombra”, “in più di un’occasione il pesce piccolo si è mangiato il pesce grosso, con lische e tutto. Questo è il bello, a volte, del calcio e della vita”.

Cesare Sangalli