Di cosa parliamo quando parliamo di Africa
Lezioni di calcio
I coccodrilli di Yamoussoukro
Colonnello, non voglio il pane…”
In nome di Allah clemente e misericordioso
L'albero delle donne e la donna degli alberi
Tutti a casa
Democrazia nel deserto
Figli di papà
E' mattina in Etiopia
Hotel Rwanda
Quando il Benin batte l'Italia
Il bandito e il campione
La seconda generazione
Un rebus chiamato Nigeria
Doctor Schweitzer & Mister Hyde

The African Job
Le mani sul Congo
I bravi maestri e i cattivi alunni
Le due Somalie
La luna calante e il giovane re
Democrazia turistica alla tunisina
Alle radici dell'odio
Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

Osservatorio africano

 

Alle radici dell'odio

(pubblicato su “Galatea”, 2005)

 

La quarta estate del terrore islamista finisce senza risposta alcuna. Siamo rassegnati al bollettino della mattanza, che sarà stato aggiornato mentre leggete queste righe. La morte e la violenza sono le uniche certezze in un contesto che ha finito sia le parole che gli slogan. Nessuna visione politica, nessuna comprensione reale, nessuna notizia certa: uno storico che dovesse studiare questi anni in base alle informazioni quotidiane rischierebbe di impazzire.

Dai morti di Londra a quelli di Sharm el Sheik si sono trovati esecutori di cittadinanza inglese, logistici egiziani, coordinatori pachistani, complici etiopi ed eritrei, piste somale, video sauditi. E vittime brasiliane, innocenti, della paranoia. La stessa che fa dichiarare a Scotland Yard che un attentato alla City è addirittura “inevitabile” (mentre fin qui sembrerebbe di no). Alla fine, il mondo va avanti come prima, più di prima, affidandosi alla forza di inerzia che sembra regnare sovrana, mentre l'Irak resta un inferno, la democratizzazione dei paesi arabi resta una trovata pubblicitaria, lo Stato palestinese un sogno, il ritiro delle truppe americane da Baghdad un mero progetto (è già tanto se riusciremo a tirarne fuori l'Italia). Quattro anni fa, lo studioso francese Gilles Kepel, esperto di fondamentalismo islamico, sosteneva che la violenza estrema nasceva dalla mancanza di un vero progetto politico, di un disegno coerente che potesse governare anche solo una nazione, figuriamoci il califfato mondiale sognato dai vari Osama Bin Laden. La sua visione si basava soprattutto sull'analisi di un paese che ha rappresentato la vera culla della violenza islamista, ma che stranamente sembra non interessare più a nessuno: l'Algeria.

Le domande che oggi tutti si pongono in modo un po' confuso (chi sono i terroristi? Da dove vengono e che cosa vogliono?) sono quasi identiche a quelle che un'intera nazione, che pure aveva partorito al suo interno il mostro fondamentalista, si pose già una dozzina di anni fa, quando nessuno o quasi immaginava gli scenari attuali. E' una storia emblematica, quella dell'Algeria, che certo non può spiegare tutto, ma che andrebbe considerata per avere almeno un quadro coerente, invece del rebus senza senso che ci viene propinato da anni, in alternativa agli scenari apocalittici e alla fantapolitica degli scontri di civiltà.

Sappiamo che le origini del pensiero fondamentalista risalgono agli anni Venti del secolo scorso, quando in Egitto nascono i Fratelli musulmani. E' un tentativo di risposta alla fine di un modello politico, quello rappresentato per secoli dall'Impero Ottomano, scomparso alla fine della Prima guerra mondiale.

Umiliato dalle false indipendenze che ribadiscono il vero colonialismo di Francia e Inghilterra, il mondo arabo elabora il lutto della decadenza sostanzialmente in due modi. Attraverso il nazionalismo laico, militarista e statalista (che potrebbe anche essere definito fascista in senso abbastanza corretto, visto che il termine oggi è utilizzato a casaccio), che punta decisamente verso le sorti dell'avvenire. Oppure attraverso il fondamentalismo, che opera una colossale rimozione per affrontare una modernità frustrante: gli arabi hanno tradito la purezza originaria dell'Islam, i leader si sono venduti all'Occidente, bisogna tornare agli antichi splendori maomettani, mettendo fra parentesi una dozzina di secoli di storia decadente. Questa elaborazione teorica si struttura fra gli intellettuali del mondo arabo negli anni Cinquanta e Sessanta, ma si sviluppa come movimento politico reale solo negli anni Settanta, che vedono modificare profondamente le società arabe, per l'effetto congiunto dell'esplosione demografica e del processo travolgente di urbanizzazione. L'Islam non è più legato alla tradizione secolare scandita dai tempi lenti delle campagne (che si sono svuotate): i nuovi fedeli sono giovani parzialmente scolarizzati (per la prima volta nella storia) che vivono in città, e cercano identità e futuro.

L'Algeria è lo specchio fedele di tutti questi processi. La più antica colonia francese (annessa ufficialmente nel 1842) è anche l'ultima a conquistare l'indipendenza, nel 1962, pagando un altissimo tributo di sangue (oltre un milione di persone fra morti e feriti). L'Algeria nasce nella violenza e dalla violenza, quasi un imprinting fatale. Agli eroi della guerriglia (terrorista come la repressione francese), identificati nel leader Ben Bella e nel Fronte di liberazione nazionale (FLN), si sostituiscono presto i meglio organizzati militari dell'esercito guidati da Boumedienne.

E' il 1965, e la struttura fondamentale del paese non cambierà più: i militari continuano ad esercitare tuttora il potere reale, servendosi del FLN come braccio politico, almeno finché serve. La costituzione del 1976 vorrebbe essere la perfetta sintesi di socialismo e islam, religione ufficiale di uno stato che controlla tutto, e dovrebbe assicurare tutto: benessere, istruzione, sanità, identità, futuro.

Alla fine degli anni Ottanta, un po' come nei paesi dell'Est europeo, la crisi del sistema è evidente, e viene accentuata dall'abbassamento del prezzo del petrolio, che l'Algeria esporta, come il gas di cui è uno dei primi produttori mondiali (e primo fornitore dell'Italia). Lo Stato onnipresente, la dittatura paternalista comincia ad abbandonare i suoi figli: tagli ai sussidi, aumento del costo dei beni a prezzo politico (a partire dal pane), disoccupazione di massa.

I più colpiti sono i giovani delle città, nati dopo un'indipendenza che danno giustamente per scontata, mentre il regime pretende ancora di legittimarsi col mito della liberazione nazionale. Subiscono ogni giorno di più l'ipocrisia ufficiale, il socialismo di facciata di classi dirigenti che si permettono tutti i lussi che le televisioni europee (compresa la RAI ) proiettano nel terzo mondo algerino tutti i giorni. Un mondo di beni e servizi che chi emigra cerca di raggiungere, ma chi resta deve invece confrontare tutti i giorni con la propria nullità: niente lavoro, si vive in quattro mura soffocati dalla famiglia e dal controllo sociale, nessuna possibilità di incidere nella vita pubblica, e nemmeno di esprimersi.

La rivolta e nell'aria, e arriva puntuale nel 1988: la repressione dell'esercito è brutale, ma il presidente Chadli Benjedid capisce che è arrivato il momento di cambiare. Nel 1989 si approva una nuova costituzione, che permette la formazione di altri partiti e una certa libertà di stampa e di espressione.

Il regime non si rende conto che il fondamentalismo islamico sta operando da anni sotto traccia, crescendo silenziosamente dentro la società algerina, che cerca disperatamente un cambiamento. Se ne accorgono solo alle elezioni locali del 1990, quando il partito islamico, il FIS, conquista il 55 per cento dei voti, lasciando all'ex partito unico, il glorioso FLN, solo il 32 per cento.

E' in questo periodo che il fondamentalismo, secondo Kepel, sembra rappresentare una alternativa reale. In Afghanistan l'Armata Rossa è stata sconfitta dai mujaheddin , preludio al crollo dell'Unione Sovietica.

In Sudan è stata ufficialmente adottata la sharia , mentre in Palestina la vecchia OLP di Arafat si deve confrontare con l'inarrestabile ascesa di Hamas. L'Arabia Saudita si è delegittimata facendo entrare le truppe americane vicino ai luoghi sacri dell'Islam, per contrastare l'espansionismo di Saddam Hussein. L'ondata islamista cresce a vista d'occhio, e le elezioni politiche algerine del 1991 vedono il trionfo del FIS, che conquista 188 seggi al primo turno, lasciando al partito di regime solo 15 seggi. E' la svolta. Il secondo turno non ci sarà mai. Il 12 gennaio 1992 le elezioni vengono annullate. A febbraio si dichiara lo stato di emergenza. Il FIS viene messo fuorilegge, 150 membri sono uccisi e altri 30mila arrestati, molti deportati nelle carceri speciali del Sahara. I futuri esportatori di democrazia occidentali non battono ciglio di fronte alla violenza preventiva attuata dal governo algerino.

La democrazia viene soffocata sul nascere. Difficile prevedere che cosa sarebbe successo se gli islamisti del FIS avessero raggiunto il potere, secondo la chiara volontà del popolo algerino. Fatto sta che a partire dal 1992 si scatena la belva del terrorismo, seguendo un escalation sempre più folle: all'inizio si colpiscono i militari, i poliziotti, i rappresentanti dello stato. Poi si colpiscono gli stranieri. Alla fine la mattanza diventa indiscriminata, si sgozzano donne e bambini. Ora la dittatura militare ha la sua legittimità, e può permettersi torture, rapimenti, sparizioni. Il popolo è schiacciato da questa tenaglia, e può solo contribuire alla democrazia di facciata, guidata attualmente da Bouteflika, presidente fortemente voluto dall'esercito ed eletto due volte in elezioni ampiamente truccate a cui ha preso parte solo un terzo della popolazione (ufficialmente la metà). Il terrorismo è in declino, anche se rialza la testa ogni volta che viene dato per definitivamente sconfitto. Petrolio e gas continuano ad arrivare in Europa e quindi dell'Algeria non si occupa più nessuno. Mantenere lo status quo ha i suoi costi umani, calcolabili in qualche centinaio di persone all'anno, in costante diminuzione. Alla fine, i falchi algerini (chiamati éradicateurs , i ripulitori del terrorismo) potrebbero perfino diventare un modello. Anzi, lo sono già. Proprio come in Libia, Tunisia, Egitto, Marocco, per non parlare della grottesca monarchia saudita: regimi dittatoriali o finte democrazie. La lezione algerina può essere riassunta come un classico caso di eterogenesi dei fini: il fondamentalismo islamico, indotto a livelli sempre più deliranti di fanatismo e di violenza, finisce per sostenere perfettamente l'ordine costituito che voleva cambiare radicalmente.

 

 

Cesare Sangalli