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Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

Osservatorio africano

(pubblicato su “Galatea”, 2006)

I figli del “colonialismo straccione”

 

In Italia un dibattito così non sarebbe neanche immaginabile, mentre in Francia si è scatenata la polemica. Una disposizione del governo francese invitava gli insegnanti a sottolineare anche gli aspetti positivi del colonialismo, più o meno mentre nelle periferie di Parigi e del resto del paese si infiammava la rivolta dei figli degli immigrati, francesi solo sulla carta. Il lupo perde il pelo (neanche tanto) ma non il vizio: la Francia sembra non essersi accorta di vivere una deriva che più che di destra si può definire reazionaria. Non si sono ancora ripresi dallo shock di quattro anni fa, quando a sfidare il gollista Chirac, gli eredi della Rivoluzione “liberté- egalité-fraternité” mandarono il razzista Jean Marie Le Pen, antisemita e islamofobo, umiliando il povero Jospin che, sdegnato, si è ritirato a vita privata. Un paese così spostato a destra non poteva non riscoprire le virtù del colonialismo, che nella prassi non è mai stato veramente superato, come si nota in quasi tutti i paesi africani francofoni, dal Ciad alla Costa d'Avorio.

Chiusi nel loro complesso di superiorità, i francesi non pensano di poter imparare molto dagli altri, meno che mai dai loro “cugini” italiani. I quali d'altra parte non imparano nemmeno dalla loro storia. E invece dalla storia coloniale italiana, che quasi nessuno studia, quasi nessuno conosce, e che non suscita la minima attenzione, arriva chiarissima la risposta alla “ vexata quaestio ”: il colonialismo ha lasciato anche un' eredità positiva? Nel caso italiano sì, ma solo per errore. Il che significa che il colonialismo è stato semplicemente uno spietato accaparramento di risorse altrui, senza se e senza ma. Un accaparramento che sostanzialmente è continuato, in forme assai più indirette e con altri strumenti, anche dopo la fine del colonialismo. Se poi le nazioni africane indipendenti abbiano o meno fatto vedere di peggio è tutt'altra questione, anche perché altrimenti al centro della scena ci siamo sempre noi, pronti a prenderci il merito di tutto o la colpa di tutto, invece di condividerle, e di dividere i buoni con i buoni (il dottor Schweitzer con Nelson Mandela, tanto per dire) i cattivi con i cattivi (Hitler con Bokassa, sempre citando a caso), i falsi buoni (per l'Africa) con i cattivi veri (per l'Africa), tipo De Gaulle con Mobutu (o Bokassa, o Eyadéma, l'elenco è lungo). Quindi, i panni sporchi del colonialismo ce li dobbiamo lavare in famiglia, e l'Italia fornisce al riguardo ottime risposte, a partire dalla sua “colonia primigenia”:l'Eritrea (vedi “Galatea”, settembre 2000).

L'avventura coloniale italiana inizia solo nove anni dopo l'unità del paese, ed è tutto dire: il regno di Vittorio Emanuele II deve ancora conquistare Roma quando, nel marzo 1870, la compagnia dell'armatore genovese Rubattino, assai vicina al governo, crea una base in un posto allucinante: la baia di Assab, nel bel mezzo del nulla, cioè dell'infuocato deserto della Dancalia, sul Mar Rosso, sponda africana (di là c'è l'Arabia, le due coste sono controllate poco e male dai turchi dell'Impero ottomano). Difficile immaginare uno scenario peggiore per un debutto: il paesaggio è lunare, disabitato, qui si registrano temperature fra le più alte del pianeta. Il tricolore dei Savoia sventola in un posto da disperati. I militari e gli avventurieri italiani che avanzano anno dopo anno lungo la costa sono dilettanti allo sbaraglio. Ma i loro governanti a Roma, in quanto a politica estera, non sono certo molto meglio. A descrivere il quadro deprimente del colonialismo italiano, il “colonialismo straccione”, è lo storico Angelo Del Boca (“Gli italiani in Africa Orientale”).

Non c'è traccia di un progetto politico, della determinazione delle grandi potenze europee. Nel 1890, praticamente per forza di inerzia, si proclama la prima colonia italiana, con il nome di Eritrea, dovuto alla fervida fantasia siciliana di Francesco Crispi. Una striscia di terra che dalle coste roventi sul Mar Rosso, e dal porto di Massaua, sale sugli altipiani in direzione dell'Etiopia, dove fiorisce un'eterna primavera. Qui si crea la capitale, Asmara, un posto perfetto per funzionari megalomani come il governatore Ferdinando Martini. Il governatore nutre un chiaro disprezzo razzista per la gente del posto. Ma lavora tanto, e tutto sommato lavora bene. Vuole a tutti i costi la ferrovia fra Massaua e Asmara, vuole più scuole e più strade. A Roma si continua a sognare di mettere le mani sull'Etiopia, che è ormai l'unico stato africano indipendente (a parte la Liberia “regalata” agli ex schiavi americani). Le ambizioni italiane sono velleitarie, lo si capisce chiaramente dopo la disfatta militare nella battaglia di Adua (1896). Gli africani sbaragliano gli europei, che se ne tornano a casa umiliati..

Ma le mire italiane sull'Etiopia restano, e si trasferiscono pari pari dal vecchio governo liberale al nuovo regime fascista di Mussolini: come spiega Del Boca, la politica coloniale non cambia di una virgola, con l'avvento del Duce, e questo la dice lunga sulla vera natura di ogni colonialismo e imperialismo. Gli italiani continuano a commettere clamorosi errori di valutazione: giocare all'Impero non si addice ad un paese debole e povero come il nostro. Si continua a rafforzare l'Eritrea come base per l'attacco all'Etiopia e quando finalmente la conquista dell'Etiopia viene ultimata (1936), il regime fascista crede di aver trovato la terra promessa per la popolazione italiana in esubero (l'Italia all'epoca ha la più alta natalità di tutta l'Europa).

“Lo stesso Badoglio riteneva che 10 milioni di agricoltori italiani si sarebbero trasferiti nell'Africa orientale italiana”, sostiene il professor Richard Pankhurst, docente inglese di storia all'università di Addis Abeba. Delirio puro. Ma siamo lontani dal modello classico della colonia, che è totale sfruttamento delle risorse. Lo stesso Pankhurst dice che ha costruito più l'Italia in cinque anni in Etiopia che l'Inghilterra in decenni in altri paesi. In Eritrea si vive addirittura meglio che in buona parte d'Italia nello stesso periodo.

La conquista dell'Etiopia è stata ottenuta compiendo efferatezze di ogni tipo (dall'uso dei gas tossici alla strage dei monaci di Debre Libanos, passando per esecuzioni di massa di ogni potenziale ribelle e per i furti dei monumenti sacri del paese). Tutto cancellato, nel paese più smemorato del mondo, tanto che c'è gente che propone per un criminale di guerra come il generale Graziani un monumento nel suo paese di origine. Ma al di là dell'infame classe dirigente fascista, gli italiani emigrati si mescolano con la popolazione, formano uno stuolo di piccoli artigiani, tecnici, operai specializzati africani, ricreano un “modus vivendi” (dall'architettura ai giardini, dai bar ai campi di calcio) tipicamente italiano a sud del Tropico, lasciando un'impronta indelebile.

Non è esagerato dire che gli italiani, senza saperlo e senza volerlo, creano un'autentica identità nazionale, quella eritrea, probabilmente la più forte di tutto il continente. O meglio, metà di una identità nazionale, perché l'altra metà è purtroppo figlia della più lunga guerra di indipendenza mai vista in Africa (1961-1991). Essere eritreo significa sostanzialmente avere vissuto diversamente dagli altri africani, impregnati di costumi e di cultura italiana, ed avere lottato contro l'Etiopia, appoggiata prima dagli inglesi, finché c'è stato il negus Hailé Selassié, poi dai sovietici, fino alla caduta di Menghistu (1991). La storia si diverte con le date: la conquista militare dell'indipendenza eritrea avviene il 24 maggio, proprio come la canzone del Piave, e il 24 maggio 1993 c'è il referendum che aggiunge ufficialmente l'Eritrea al novero della nazioni.

Ma in questa storia non c'è l' happy end . Perché l'indipendenza ottenuta contro tutto e contro tutti, un po' come Israele nel 1948, ha regalato all'Eritrea un regime, quello guidato da Isaias Afeworki, (indiscusso leader della lotta guerrigliera), che non è riuscito a liberarsi del suo spirito guerriero, del suo orgoglio nazionalista e militarista. Il rivoluzionario marxista è diventato un dittatore, com'è successo a tutte le latitudini e in ogni epoca storica.

Le tre guerre con l'Etiopia, in cui torti e ragioni alla fine si compensano perfettamente, hanno prolungato la mobilitazione permanente di tutto un popolo, soffocato ogni aspirazione alla libertà, annullato i progressi incoraggianti dei primi anni di indipendenza. Oggi, dopo l'espulsione nel dicembre scorso del contingente ONU che doveva sorvegliare la frontiera fra i due paesi, si teme una quarta guerra. La gente non ne può più di questa vita militarizzata. L'anima “italiana”, così femminile nel saper cercare le piccole gioie quotidiane della vita, un'anima che ha resistito per mezzo secolo, nonostante tutte le avversità (e il completo abbandono da parte di Roma), è schiacciata dal tremendismo dei militari al potere, i duri e puri che sembrano vivere perennemente in stato di guerra. Quest'anima gentile e dignitosa resta l'unica eredità positiva del “colonialismo straccione”, che voleva creare un Impero e ha diffuso invece il consumo degli spaghetti e la cultura del buon caffè.

Cesare Sangalli