Di cosa parliamo quando parliamo di Africa
Lezioni di calcio
I coccodrilli di Yamoussoukro
Colonnello, non voglio il pane…”
In nome di Allah clemente e misericordioso
L'albero delle donne e la donna degli alberi
Tutti a casa
Democrazia nel deserto
Figli di papà
E' mattina in Etiopia
Hotel Rwanda
Quando il Benin batte l'Italia
Il bandito e il campione
La seconda generazione
Un rebus chiamato Nigeria
Doctor Schweitzer & Mister Hyde

The African Job
Le mani sul Congo
I bravi maestri e i cattivi alunni
Le due Somalie
La luna calante e il giovane re
Democrazia turistica alla tunisina
Alle radici dell'odio
Le ombre dell'arcobaleno
Una fame antica, anzi moderna
I figli del "colonialismo straccione"
Ombre cinesi sul Continente nero
In piedi, entra la Corte
L'altro Congo

Un fallimento chiamato Kenya - nuovo

 

Osservatorio africano

 

Ombre cinesi sul Continente nero

(pubblicato su “Galatea”, 2006)

 

Bandung, Indonesia, 1955. La conferenza internazionale fortemente voluta dal presidente indonesiano Sukarno rappresenta una svolta epocale, anche se viene generalmente sottovalutata, come si nota meglio a mezzo secolo di distanza.

Il mondo nel 1955, dieci anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è ancorato all'impostazione sancita a Jalta: due grandi potenze, USA e URSS, a dividere ideologicamente il mondo in due; e due comprimari, Regno Unito e Francia, a continuare a vivere di rendita sulle colonie.

Eppure qualcosa è cambiato: India e Cina, entrambe presenti alla conferenza di Bandung, sono diventate indipendenti; lo stesso vale per l'Egitto di Nasser, unico paese africano a partecipare al summit, e primo nel continente (ancora quasi per intero sotto il dominio coloniale europeo) a stabilire relazioni diplomatiche con la Cina , un anno dopo (1956). A Bandung nasce il concetto di “Terzo Mondo”, un termine che avrà una fortuna enorme, anche se nel tempo ha talmente accentuato la sua valenza negativa da venire sostituito nel linguaggio politically correct con nuove espressioni (la più gettonata è “paesi in via di sviluppo”). All'epoca però si intendeva semplicemente prendere le distanze dal “primo mondo” dei paesi che oggi definiamo “occidentali” e dal “secondo mondo” dei paesi comunisti. Più che un ribaltamento ideologico, che non era poi così marcato ( la Cina era comunista e non aveva ancoro rotto con l'Unione Sovietica), era un ribaltamento di prospettive geopolitiche, di punti cardinali: non più Est/Ovest, ma Nord/Sud.

Con la crisi del comunismo, negli anni Ottanta, la prospettiva Nord/Sud ha goduto di una certa considerazione, per poi sparire di nuovo, sommersa dal grande caos degli anni Novanta e di questo sconcertante inizio di secolo. Tutta l'attenzione si è concentrata sull'Islam, e ci vorrà un po' di tempo prima di renderci conto che si è trattato di un gigantesco abbaglio, un abbaglio che ha fatto sicuramente gioco ad un bel po' di persone, ma non ha minimamente contribuito ad una migliore comprensione del mondo. L'Africa, se prima aveva scarsa considerazione, negli ultimi anni sembra non averne nessuna, quanto meno quella a sud del Sahara.

Ma questo non vale per tutti. Soprattutto, non vale per la Cina (e per l'India). E' come se la prospettiva “terzomondista”, buttata fuori dalla porta, rientrasse dalla finestra. Con alcune precise caratteristiche, relative innanzi tutto alla comunicazione, di cui pretendiamo di essere maestri. La prima caratteristica è che il ritorno del “Terzo Mondo” è tanto silenzioso quanto inarrestabile. L'esatto contrario della nostra prosopopea sull'”Occidente”, tutta chiacchiere e distintivo. I veri campioni della retorica vana (e dell'ipocrisia) sono, inutile dirlo, gli Stati Uniti, che più perdono terreno, più progettano il “Nuovo Secolo Americano” (uno non gli è bastato), convinti come sono di essere gli unici detentori della verità, di essere la “lux mundi” che illumina il cammino dell'umanità. L'Europa sarebbe un po' più saggia, ma è del tutto restia ad andare per conto proprio, a sganciarsi definitivamente dal modello americano. Lo stesso vale per il Giappone, che proprio non riesce a cambiare (anzi, a mettersi in discussione), e mutatis mutandis, per la Russia , che si sta di nuovo illudendo di essere grande solo grazie alle materie prime.

Incapaci di governare il mondo, gli “occidentali” (termine sempre più vuoto) si riuniscono nei loro vanitosi meeting, assolutamente inconcludenti, allungando la litania delle dichiarazioni di intenti e posticipando continuamente il riscontro con la realtà. Tanto più sono strombazzati i “Millennium Goals” e le altre iniziative dai nomi altisonanti, tanto meno hanno un impatto concreto.

Ma altrove, senza fare tanto chiasso, si agisce. Le vere novità mondiali si chiamano Cina, India, Brasile, e fra un po' anche Sudafrica. E' il Terzo Mondo che esce dalle retrovie, e arriva in “pole position”. Facendo spesso l'esatto contrario del Primo Mondo. Noi abbiamo dimenticato l'Africa? Loro la riscoprono, la mettono fra i primi posti dell'agenda. La Cina , mentre l'Occidente faceva la guerra al terrorismo, è diventato il terzo partner commerciale del Continente Nero dopo USA e Francia, scavalcando l'Inghilterra. Il sorpasso a francesi e americani, che pensavano di giocarsi una partita a due, potrebbe arrivare presto, con questi ritmi. Il volume degli scambi commerciali fra Cina e paesi africani è quadruplicato negli ultimi cinque anni (fonte: “Limes”), e continua a crescere a ritmi vertiginosi (più del 50 per cento all'anno).

E'chiaro che i cinesi cercano materie prime, a partire dal petrolio, proprio come i paesi occidentali. Ma il loro approccio, certo non rivoluzionario, è comunque molto diverso da quello prettamente neocoloniale che Europa e Stati Uniti hanno continuato a portare avanti nonostante gli esiti catastrofici (per gli africani, ovviamente).

Questo accade essenzialmente per una semplice ragione: in Cina è ancora la politica a guidare l'economia e non viceversa. La politica estera dei paesi occidentali è dettata, dietro le quinte, dalle grandi multinazionali, dalle lobby private: i leader politici si affannano a mettere le foglie di fico, a recitare il solito rosario della cooperazione internazionale e degli aiuti umanitari, per nascondere la solita vecchia politica di sfruttamento duro e puro.

La Cina non si riempie la bocca di belle parole, a parte le cortesie diplomatiche, anche perché non ha niente da insegnare in termini di democrazia e rispetto dei diritti umani . Però offre condizioni contrattuali decisamente vantaggiose: per esempio scambia materie prime con la realizzazione di infrastrutture, realizzate a costi molto più bassi degli occidentali e a tempi di record: strade, aeroporti, ferrovie, dighe, stadi, palazzi. Oppure offre investimenti a tassi bassissimi. Oppure accetta una logica commerciale alla pari, visto che per esempio ha cancellato i dazi su 190 tipologie di prodotti importati dai 28 paesi africani meno sviluppati, avendo in cambio via libera sui propri manufatti, che sono molto più alla portata delle povere tasche africane rispetto ai nostri prodotti. Ergo, molti paesi africani si stanno rivolgendo a oriente (oltre alla Cina sta entrando in gioco anche l'India) e fanno benissimo.

Per anni gli “occidentali” hanno solo umiliato l'Africa. Come? Imponendo prezzi bassissimi ai prodotti introvabili da noi, come caffè, cacao, banane e quant'altro; proteggendo i nostri prodotti se non erano concorrenziali (come il tabacco, il cotone, e altri) e schiantando, appena era possibile, le produzioni locali (dal riso e dal mais esportati dagli USA al latte in polvere della Nestlé, passando perfino per il pomodoro cinese inscatolato a Napoli ed esportato in Africa occidentale come prodotto UE). Importando quindi materie prime pagate al minimo ed esportando prodotti finiti a costi proibitivi (dalle automobili alle medicine, anche quelle indispensabili per la cura di malattie endemiche africane come la malaria). Infine, il Continente nero è stato umiliato da una politica finanziaria che ha messo il cappio del debito internazionale intorno al collo di quasi tutti i paesi africani, proprio come fanno gli strozzini con le loro vittime, approfittando quasi sempre di una classe politica locale corrotta (da noi) che riportava gran parte dei soldi “investiti” in Africa nelle nostre banche. E la beffa finale è che abbiamo continuato a fare la predica, a dare lezioni continue ai “somari” del mondo, che non imparavano mai. Mai sazi nel depredare il Continente nero, gli occidentali pretendono poi di fare la figura dei buoni e dei generosi, stanziando qualche briciola nella cooperazione internazionale (cioè in larga misura di nuovo a se stessi), o rinunciando a crediti in gran parte inesigibili che il sistema finanziario aveva opportunamente creato.

La Cina porta avanti pragmaticamente il suo business e lo fa in modo più onesto, trattando alla pari con i partner africani. L'unica condizione che pone è il non riconoscimento di Taiwan, l'altra Cina, quella che un tempo si definiva “nazionalista”, e non è certo un impegno troppo gravoso.

Preoccupati dell'avanzata cinese, americani ed europei cominciano a lamentare la mancanza di scrupoli di Pechino, che fa affari con qualsiasi governo, anche quelli degli stati considerati “canaglia”, come il Sudan, lo Zimbabwe, o la Liberia ai tempi di Charles Taylor. Come se invece loro si fossero posti dei problemi con Mobutu, Bokassa, Abacha, Idi Amin Dada, Hissène Habré e altri “gentlemen” africani. Nel caso degli americani, la faccia tosta sfiora il candore, con involontario effetto comico. Proprio sul numero di “Limes” dedicato all'Africa, il consigliere finanziario Ryan Floyd, dopo aver reiterato gli appelli alla privatizzazione e al contenimento dei bilanci statali dei paesi africani (i liberisti sembrano avere intelligenze clonate, dicono sempre le stesse cose a prescindere dalle epoche storiche, dai contesti sociali, dalle aree geografiche, ) conclude: “Noi vogliamo stringere rapporti con nazioni forti e indipendenti, non con nuove colonie che vivono al di sopra dei loro mezzi grazie all'afflusso dei capitali occidentali”. Imbarazzante. Forse Floyd non ha mai messo piede in Africa, a vedere la gente che “vive al di sopra dei propri mezzi grazie all'afflusso di capitali occidentali”. Gente come lui non sembra nemmeno sfiorata dal dubbio che probabilmente nazioni africane “forti e indipendenti” non sarebbero ansiose di stringere rapporti con il cosiddetto Occidente, se già quelle deboli e dipendenti preferiscono di gran lunga la Cina.

 

Cesare Sangalli