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Osservatorio africano

In piedi, entra la Corte

(pubblicato su “Galatea”, settembre 2007)

 

Il fatto sicuramente costituisce un precedente. Il Tribunale Penale Internazionale, o “International Criminal Court” (ICC), ha chiesto l'arresto di un capo di stato al potere, il presidente del Sudan Omar Al Beshir. Questa è l'accusa: Al Beshir è responsabile di crimini contro l'umanità, per aver guidato dall'alto le operazioni di pulizia etnica compiute in Darfur, che molti continuano a definire genocidio (vedi “Galatea”, settembre 2004, titolo “Colonnello, non voglio il pane…”).

Nel Darfur si ripete uno scenario sostanzialmente identico a quello di tanti conflitti africani, definiti “guerre a bassa intensità” perché non c'è un reale scontro di eserciti, non c'è un fronte definito, né una vera strategia militare. Ci sono solo criminali che cercano di avere il controllo sul territorio terrorizzando la popolazione per sottometterla completamente o costringerla alla fuga, per poi poter gestire le risorse che quel territorio offre. In Sudan la partita si gioca sul petrolio e sull'acqua, sicuramente presenti in Darfur ma non ancora sfruttati. E' uno spettacolo atroce che l'Africa ha visto ripetersi decine di volte, nella sua storia breve e tormentata. Ma oggi, per la prima volta, comincia ad esistere una giustizia internazionale che non accetta più come “normali” queste situazioni, ne rivela l'essenza criminale e ne individua le responsabilità e i responsabili, con nome e cognome. E' significativo che il laboratorio di questa nuova giustizia sia proprio il Continente Nero.

Il primo arresto effettuato per conto del Tribunale Penale Internazionale è stato quello di Thomas Lubanga, piccolo e feroce leader militare della Repubblica Democratica del Congo. Il primo processo ad un ex capo di stato è quello in corso all'Aja a Charles Taylor, sanguinario presidente della Liberia negli anni della guerra civile (anche se in questo caso il Tribunale Penale Internazionale offre solo un supporto tecnico e logistico). Qualcuno potrebbe obiettare che prima di lui c'è stato Milosevic. A questo punto occorre fare un passo indietro, un flashback sugli anni Novanta.

Gli ultimi processi internazionali che il mondo aveva visto risalivano a Norimberga, contro i gerarchi nazisti, e al Giappone, nei confronti dei vertici militari dell'Impero del Sol Levante.

Per quanto l'intento di quei tribunali fosse nobile (impedire che nella storia dell'umanità si ripetesse quello che era successo con la Seconda guerra mondiale), si trattava comunque di un giudizio portato avanti dalle potenze vincitrici nei confronti di quelle sconfitte. Nel seguente mezzo secolo è come se guerre e crimini contro l'umanità fossero diventati periferici, monopolio dei paesi del Terzo Mondo, e dell'Africa in particolare. Era come se esistesse un doppio standard, che limitava costantemente la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948 ad una ristretta parte dell'umanità. Ma la guerra in Jugoslavia ha riportato nel cuore dell'Europa situazioni ritenute impensabili fino a pochi anni prima. Allo stesso tempo, la carneficina in Ruanda del 1994 è stata considerata, per le sue dimensioni e per la sua sistematicità, un punto di non ritorno, tanto da far coniare l'espressione “Olocausto africano”. L'ONU, organizzazione creata per garantire la pace fra tutti i popoli nel mondo, ha toccato in quegli anni il livello più basso della sua storia: rimanere ancora inerti avrebbe minato definitivamente il fondamento della sua stessa esistenza. Ma i Tribunali speciali per il Ruanda e per la ex Jugoslavia sono per l'appunto “speciali”. Sono stati creati solo a posteriori, ed esauriranno la loro funzione quando i processi saranno terminati.

La vera svolta è avvenuta a Roma, nel 1998. Per la prima volta, il mondo ha voluto istituire un'autorità permanente e super partes, concepita per superare definitivamente il concetto di sovranità nazionale da un lato e quello dell'interventismo imperiale dall'altro. Ora esisteva uno strumento per giudicare genocidi, crimini di guerra, crimini contro l'umanità, senza limiti di tempo, perché secondo il diritto internazionale questi delitti non sono soggetti a prescrizione..

La novità era così dirompente che è stata quasi completamente oscurata. Il mondo doveva continuare a ragionare solo in termini di rapporti di forza, militare o economica. Dalla fine della Guerra Fredda si fanno salti mortali dialettici per dimostrare che questa impostazione è anche “giusta”, che abbiamo bisogno della protezione dei “Grandi”, che restano i veri tutori della nostra sicurezza, a partire dagli Stati Uniti. Il primo decennio del Ventunesimo secolo è stato dominato indubbiamente da questo orientamento, che probabilmente prevarrà ancora a lungo.

Ma intanto, fra mille contraddizioni e debolezze strutturali, si va affermando un altro scenario, molto diverso da quello a cui siamo abituati. Basta vedere quali sono gli stati che fin qui hanno aderito al trattato di Roma, sottoponendosi alla giurisdizione del Tribunale. Ci sono tutti i paesi europei, tutti i paesi latinoamericani e alcuni paesi asiatici. Ma ci sono anche e soprattutto 30 paesi africani. E fra i primi al mondo ad aderire al Tribunale si segnalano il Senegal e il Burkina Faso, due stati africani a maggioranza islamica.

Sono gli assenti, però, che fanno più clamore: Stati Uniti, Russia, Cina, India. E poi tutti i paesi arabi, Israele e l'Iran, il Pakistan, l'Indonesia, la Turchia. Sono i paesi militarmente più forti, quelli che giocano con la Bomba , quelli che continuano a ballare sul filo dell'Apocalisse. Quelli che occupano i notiziari, che eccitano gli esperti di relazioni internazionali, gente che continua a vedere il mondo come un enorme Risiko, un folle gioco (che loro vorrebbero razionale e logico) di tutti contro tutti. La “fortuna” , se così si può definire, è che questi stati sono troppo potenti per pensare di scontrarsi direttamente, e quindi mantengono una strana pace fatta di complotti permanenti e di menzogne ufficiali. I paesi africani invece vivono le loro sporche, piccole guerre criminali sotto gli occhi di tutti. La forza di tanti piccoli tiranni del Continente Nero era basata in gran parte sull'indifferenza totale del resto del pianeta. Ma adesso sanno che c'è chi si occupa di loro e continuerà a farlo finché vivono. Certo, siamo solo all'inizio.

Quando Thomas Lubanga venne arrestato, nel 2005, il suo errore più grosso era stato l'uccisione di nove caschi blu della missione MONUC. Viceversa, gli altri crimini che aveva commesso forse sarebbero rimasti impuniti, come è avvenuto per molti altri protagonisti della guerra congolese, a partire da Laurent Nkunda che è ancora in piena attività. Fatto sta che Lubanga sarà il primo capo militare al mondo ad essere giudicato per aver arruolato bambini soldato. E' comunque un precedente. Lubanga è indubbiamente un pesce piccolo. Ma qualche anno dopo è arrivato il tempo della giustizia per Jean Pierre Bemba, che poteva diventare presidente della Repubblica Democratica del Congo, e che è un politico di lungo corso e un facoltoso businessman. Bemba, come Charles Taylor, si era illuso di poter vivere un tranquillo esilio dorato lontano dal paese dove aveva commesso i suoi crimini. E invece no: Taylor è stato arrestato in Nigeria, Bemba in Germania: finiranno probabilmente i loro giorni in una prigione europea. Nessuno può considerarsi veramente al sicuro. Illuminante è il caso di Hissène Habré, spietato dittatore del Ciad (vedi “Galatea” marzo 2005) dal 1982 al 1990. Spodestato con la forza da Idriss Déby, il nuovo uomo forte, tutt'ora al comando, Hissène Habré si era rifugiato in Senegal, lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue: oltre ventimila ciadiani assassinati dal suo regime. Avendo opportunamente svuotato le casse di stato, viveva tranquillo a Dakar finché, nel 2000, una delle sue vittime, Soleyman Guengueng, con l'aiuto dell'associazione Human Rights Watch, lo ha denunciato ai tribunali del Belgio (che si sono attribuiti una giurisdizione universale per quanto riguarda i crimini contro l'umanità). Habré è stato arrestato, ma grazie al lavoro accanito dei suoi legali, è sempre riuscito ad evitare l'estradizione. A fine luglio il parlamento del Senegal ha emendato la costituzione, stabilendo che il principio di non retroattività della legge penale non si applica a reati considerati crimini contro l'umanità quando sono stati commessi. “Il Senegal ha ormai una delle legislazioni più complete del mondo”, ha commentato il portavoce di Human Rights Watch , Reed Brody. Tutto questo mentre in Italia Amnesty International raccoglie le firme per inserire il reato di tortura nel nostro codice penale. Le condanne scandalosamente miti ai dirigenti di polizia e Digos per le violenze nella caserma di Bolzaneto si devono in buona parte a questa gravissima mancanza della legge italiana.

La giustizia internazionale, quindi, avanza, e in Africa sta facendo passi da gigante. Le ricadute sono anche culturali. Nel forum sul mandato di arresto al presidente del Sudan, in un sito internazionale, i commenti dei lettori africani erano tutti di approvazione, mentre alcuni bloggers serbi, nello stesso forum, cavillavano sulla consegna di Karadzic, mettendo in discussione la legittimità del Tribunale dell'Aja. L'idea che i dittatori africani siano voluti dai loro popoli è un'idea essenzialmente occidentale. Il Tribunale Penale Internazionale è forse la prima vera istituzione del mondo che verrà. In questa storia tutta da scrivere, in questo mondo ancora da creare, basato sul diritto e non sulla forza, l'Africa è nel gruppo dei primi, quasi a sottolineare l'arretratezza di quelli che pretendono ancora di essere il faro dell'umanità.

 

Cesare Sangalli