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Osservatorio africano

L’albero delle donne e la donna degli alberi

“Se i soldi crescessero sugli alberi, le donne sposerebbero le scimmie”. E’ un detto che circola in Costa d’Avorio, e traduce abbastanza bene la misoginia versione Continente Nero, che poi è simile, in origine, a quella diffusa da sempre in tutto il pianeta. Agli stereotipi negativi sul Terzo Mondo, che facilmente degenerano in razzismo, si aggiungono i triti e tristi luoghi comuni sulle donne. E in società tradizionali come quelle dell’Africa rurale, in cui l’età diventa immediatamente gerarchia, sono le bambine a rappresentare l’anello più debole della catena, l’ultimo gradino della scala sociale, oltre il quale c’è solo la nuda terra, l’humus da cui deriva la parola umiltà, la terra madre che accoglie il seme per far crescere gli alberi.
Non doveva essere esattamente una di queste bambine, Wangari Muta Maathai, premio Nobel per la pace 2004. Nata a Nyeri, nel centro del Kenya, il 1° aprile 1940, Wangari Maathai è sicuramente un’eccezione in tutti i sensi, perché riesce a studiare e addirittura a completare gli studi negli Stati Uniti, evento più unico che raro per una donna africana della sua generazione. Quando si diploma in biologia, in un college del Kansas, il Kenya ha raggiunto l’indipendenza solo da un anno, dopo una lunga lotta, anche violenta, condotta dal padre della patria Jomo Kenyatta. E’ il 1964, un anno speciale per gli afroamericani: a ottobre Martin Luther King viene insignito del premio Nobel per la pace, e la giovane studentessa che passa dal college all’università di Pittsburgh non può certo immaginare che quarant’anni dopo un tale onore sarebbe toccato proprio a lei.
Alla fine degli anni Sessanta Wangari Maathai ritorna in Kenya, dove finalmente ottiene il dottorato (quello che nel corso di studi anglosassone si chiama Ph.D) in medicina veterinaria all’Università di Nairobi (1971). Nel 1976 raggiunge l’apice della carriera universitaria come capo del dipartimento di veterinaria: nessuna donna si era mai spinta così avanti, in Kenya.
Eppure, a 37 anni, già moglie e madre, Maathai chiude con il mondo universitario, dove avrebbe potuto vivere placidamente fino alla pensione, e ricomincia da zero, dalla terra, a partire dal giardino di casa, con un’idea semplicissima: piantare alberi. Ai più lei appare come una pazza visionaria, e invece ha una coscienza ecologica a tutto tondo e in largo anticipo sui tempi: ha percepito prima e meglio di tanti ambientalisti “tutto chiacchiere e distintitivo” che uno dei principali drammi del pianeta si chiama deforestazione, un fenomeno con conseguenze devastanti in qualsiasi ecosistema. Meno foreste significa meno ossigeno, fine anticipata di un’ enorme quantità di forme di vita (la biodiversità), soprattutto nelle foreste pluviali delle zone calde, ma anche erosione dei terreni con maggiori rischi di alluvione nelle zone temperate e desertificazione nelle zone aride. Un problema globale, insomma, e Maathai aveva un approccio new global (o altermondialiste, come dicono i francesi) molto prima che si creasse la definizione stessa: pensava globalmente e agiva localmente.
Il movimento da lei creato, il “Green Belt Movement” (“Movimento della cintura verde”), si rivolge soprattutto alle donne: le collaboratrici più strette creano i vivai per consegnare le piccole piante ad altre donne, che vengono istruite a dovere; per ogni pianta che supera indenne i tre mesi di vita, le “agenti forestali senza diploma” ricevono una piccola somma di denaro. In barba allo scetticismo degli uomini, che non ritengono le donne all’altezza di un simile compito, il “Green Belt Movement” si allarga a macchia d’olio, anno dopo anno, albero dopo albero, donna dopo donna. Un lavoro oscuro e paziente, tenace e silenzioso perché, come si suol dire, “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. A quindici anni dall’inizio dell’esperienza, il “Green Belt Movement” (GBM) coinvolge 50mila donne, che hanno piantato più di dieci milioni di alberi.
Insieme alla foresta, cresce anche la coscienza femminile: Maathai ha iniziato a collaborare con il “National Council of Women of Kenya”, e ora la formazione riguarda anche la nutrizione, la pianificazione familiare e altri contenuti. Senza saperlo, è già entrata in rotta di collisione con il potere politico, che è quasi ovunque un “dominio riservato” degli uomini. Il perché lo spiega indirettamente il marito di Maathai quando chiede il divorzio: questa donna è “troppo istruita, troppo forte, troppo spesso vincente, troppo ostinata e troppo difficile da controllare” (come riporta “Jeune Afrique-L’Intelligent”). Tutti aggettivi che possono essere tranquillamente trasferiti alla società civile, soprattutto nella parte che riguarda le donne. Una società civile che rappresenta sempre più la spinta propulsiva nelle democrazie moderne, fino a rendere i partiti, quando si chiudono in se stessi, strumenti arrugginiti di un passato glorioso e tragico, un po’ come accade (o dovrebbe accadere) a tante forme “maschili” di organizzazione del pensiero (prima fra tutte quella militare, la più maschia e ottusa di tutte).
Il Kenya monocratico ha avuto solo un altro presidente dopo Jomo Kenyatta: Daniel Arap Moi.
L’ennesimo Grande Presidente apparentemente insostituibile, versione moderna del grande monarca di un tempo. O meglio ancora, del patriarca, nella visione familistica del potere, la più dannosa per la democrazia, perché i cittadini non sono figli da tutelare, meno che mai eterni minorenni incapaci di intendere e di volere (proprio quello che si pensa delle donne nelle mentalità più arretrate, compresa quella paleocattolica del nostro commissario europeo Rocco Buttiglione). Più radicato è il maschilismo, più è intangibile la figura del Capo e viceversa. In questo senso, nessuno supera i paesi arabi, che sono quelli politicamente più arretrati del pianeta. L’Africa nera, pur con tutti i suoi drammatici problemi, è sicuramente più mobile, più aperta alle novità, più dinamica, di altre zone del mondo, anche europee (come molte depresse repubbliche ex sovietiche, dall’Uzbekistan alla Bielorussia, passando per l’Ucraina).
“Non vi potete battere per l’ambiente senza entrare prima o poi in conflitto con i politici”, sostiene Wangari Maathai. La prima occasione riguarda una classica questione urbanistica: la costruzione di un ecomostro nel parco Uhuru (che in lingua swahili significa “libertà”) di Nairobi. E’ il 1989, un anno particolare, perché il vento del cambiamento sparge semi di rivolta un po’ in tutto il mondo.
Maathai con il suo movimento si oppone alla realizzazione del grattacielo, chiede che i soldi del governo e dei finanziatori internazionali siano impiegati diversamente. E’ la prima crepa in un regime monolitico. Il governo reagisce male, Maathai viene momentaneamente arrestata, ma la copertura mediatica della protesta scoraggia la realizzazione del progetto, anche perché il Kenya ha forti legami internazionali, e l’autoritarismo di Arap Moi non si manifesta mai in modo troppo brutale, preferendo puntare su altri metodi, come la cooptazione o la corruzione.
Maathai però è una persona che non si fa manovrare: comincia a farsi portavoce dei prigionieri politici e partecipa alla fondazione del Forum per il ripristino della democrazia. Nel 1992, nel corso di una manifestazione, è malmenata dalla polizia fino a perdere conoscenza e poi processata e condannata come sovversiva. Cercano di screditarla in tutti i modi: “è una pazza”, si dice, “una minaccia per l’ordine e la sicurezza del paese”, “una lunatica al soldo degli interessi stranieri”. Ma lei non si arrende, anche perché ormai le risulta chiaro che l’azione, sociale o ambientale che sia, prima o poi deve anche farsi sentire, avere una ricaduta politica: “Se devo stare zitta, è come se non avessi fatto niente”. Sa benissimo che dovrà anche continuare ad accettare critiche, accuse e minacce, perché, come dice un proverbio africano “sono gli alberi lungo la strada che prendono tutti i colpi dei passanti” (in altre parole, chi si espone in prima persona paga sempre le conseguenze del suo coraggio). Per Maathai, che ormai fa politica attiva, significa prender altre botte dalla polizia per aver piantato alberi nella foresta pubblica di Karura a Nairobi, ma anche ricevere il sostegno di Amnesty International e diversi riconoscimenti da parte di organizzazioni ecologiste internazionali.
La sua lunga marcia raggiunge un primo grande traguardo con la vittoria elettorale della Coalizione arcobaleno di Mwai Kibaki, che raccoglie tutta l’opposizione ad Arap Moi, nel dicembre 2002.
Si temevano scontri e violenze, frodi e falsificazioni. Qualcuno paventava addirittura la guerra civile. Invece la democrazia ha vinto, il governo uscente ha accettato la sconfitta, tutto si è svolto nella totale normalità e trasparenza. Kibaki è il nuovo presidente, e Maathai viene eletta al parlamento con una valanga di voti e quindi nominata vice ministro per l’ambiente. A 63 anni, con tre figli, inizia una nuova sfida, sicuramente più complessa, perché grandi sono le speranze affidate al nuovo governo e ancor più grande è il rischio di deluderle. Però c’è tutto un popolo in movimento, in Kenya. Lo dimostra anche la recente marcia della gente che vive nelle baraccopoli di Nairobi verso il centro cittadino, le banche e le ambasciate. Non solo una protesta per la giustizia sociale, ma soprattutto una marcia interconfessionale (cattolici, protestanti e musulmani) per la pace, sotto centinaia di bandiere arcobaleno, le stesse che per mesi abbiamo visto ai balconi delle nostre case (e il Kenya ha visto il primo attentato rivendicato da Al Qaeda, la bomba all’ambasciata americana nell’agosto del ’98, che uccise soprattutto gente di Nairobi). Il premio Nobel a Wangari Maathai è il riconoscimento per una nazione, per un continente. Meglio ancora: è il riconoscimento di una possibilità, in un mondo oscurato dal pessimismo più cupo. Martin Luther King lo sapeva anche 40 anni fa: “E se anche sapessi che domani finisce il mondo, oggi stesso pianterei il mio alberello di mele”.

Cesare Sangalli